Quando Carmelo Bene apparve a Stalin in Russia

Nella biografia di Luisa Viglietti c'è la quotidianità dell'attore. Autentico rivoluzionario dello spettacolo

Quando Carmelo Bene apparve a Stalin in Russia

Tra gli antiaccademici, gli irregolari, gli scavezzacolli, i matti del nostro Novecento artistico - da Antonio Ligabue a Dino Campana, passando per Alda Merini -, ce n'è stato uno più antiaccademico, più irregolare, più scavezzacollo, più matto di tutti, che ha sbaragliato l'agguerrita concorrenza.

Carmelo Bene anche se era convinto di non esistere moriva esattamente diciannove anni fa. E pare di sentirlo ghignare da lassù (magari mentre appare alla Madonna), al cospetto delle numerose pubblicazioni che nel corso degli anni hanno tentato, più o meno felicemente, di ricordarlo. Si sfila dal coro ufficiale dei peana il volume Cominciò che era finita (edizioni dell'asino, pagg. 224, euro 16) di Luisa Viglietti, costumista teatrale e ultima compagna di Carmelo Bene, racconto capace di restituirci il quotidiano del grande artista e mai in senso agiografico. Scopriamo un Carmelo Bene non solo pieno di idiosincrasie - famosa la sua avversione per la luce diurna, da cui gli spessi tendaggi alle finestre di seta di moiré - ma anche afflitto da svariate coglionerie - la fissa sulla Fanta alternata a vini pregiati, perché il medico gli aveva detto di assumere la vitamina C.

Originario del Salento, terra magica e cattolicissima, da bambino è uno strepitoso chierichetto. Arriva a servire anche quattro o cinque messe al giorno, forse scoprendo proprio all'altare la sua vocazione per il sacro. Dalla religione passa al teatro, in fondo soltanto un altro tipo di chiesa. Alla fine degli anni Cinquanta sbarca a Roma con spirito caravaggesco, frequentando l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Ma in quei primi anni turbolenti del suo apprendistato contano più le bevute e le risse che non le lezioni di canto, ballo e dizione. Una notte in gattabuia è più istruttiva di una dispensa di drammaturgia: per l'arresto è sufficiente atteggiarsi a mendicante, smettere di radersi per qualche tempo. Prime infatuazioni teatrali: il Caligola di Camus e la poesia di Majakovskij. Ma non tollera che a dirigerlo siano altri, perciò si adopera per diventare regista di se stesso mettendo in piedi il malfamato Teatro Laboratorio in un locale di Trastevere. Mette in scena spettacoli osceni per minare le certezze dei nuovi borghesi nati col boom economico. Sputi e urina diventano gli elementi imprescindibili delle sue performance, ma per fortuna si ferma un attimo prima di venire retrocesso a macchietta. Tra i primi estimatori - quelli convinti che dietro la voglia di scandalizzare a ogni costo si nasconda un vero artista - ci sono anche Flaiano, Arbasino, Moravia. Carmelo Bene comincia a gettare le basi teoriche del suo lavoro attraverso la Salomè di Oscar Wilde e l'Amleto di William Shakespeare, insieme a Lydia Mancinelli, Sergio Citti, Leo de Berardinis e molti altri.

L'intento è quello di decostruire il teatro inteso come spettacolo e rappresentazione di Stato, inanellare atti e non azioni sceniche, insomma porgere al pubblico una trascendenza sotto forma di liturgia atea. Nel 1967 si lascia dirigere da Pier Paolo Pasolini nel film tratto da Edipo Re e si apre a un'irripetibile stagione cinematografica, oltre e contro il cinema pattumiera di tutte le arti. I suoi lungometraggi, non meno radicali dell'esperienza teatrale, incarnano alla perfezione l'aria del tempo, restituiscono le smanie sperimentali di un'arte che non accetta nessun compromesso con il pubblico: non sono fruibili, ma sono decisivi. Un po' come era avvenuto con James Joyce per il linguaggio (l'Ulisse è un'altra delle sue ossessioni), Carmelo Bene fa esplodere le immagini trasformandole in pura visione.

Sul finire degli anni Settanta torna a teatro e si trasforma in C.B. la Macchina Attoriale. Con l'aiuto dell'amplificazione può sottrarre la sua voce alla dittatura della recitazione tradizionale, dell'odiato birignao da grande mattatore. Si parla addosso, si parla dentro, si tramuta in semplice phoné, suono comprensibile a tutti perché non significa nulla. In questo modo nel 1981 può sussurrare Dante a oltre centomila persone, issato sulla cima della Torre degli Asinelli di Bologna. Nel frattempo diventa anche uno strepitoso personaggio televisivo, uno dei pochi che fin dalle prime ospitate non si lascia cambiare dal più diabolico degli elettrodomestici di massa. Passa indifferentemente dagli studi di Aldo Biscardi a quelli di Maurizio Costanzo. Per alcuni il suo pensiero è solo un revival dei grandi pessimisti (Arthur Schopenhauer, Giacomo Leopardi, Emil Cioran) e un calco degli strutturalisti e decostruzionisti francesi (Ferdinand de Saussure, Jacques Derrida, Gilles Deleuze). Col passare del tempo le contraddizioni si accentuano: il massacratore di commediografi e scrittori che ridusse sempre il testo a un pretesto fa inserire l'insieme delle sue opere nei classici Bompiani; l'attore delinquenziale che imbrattava le pellicce delle signore in prima fila comincia a tingersi i capelli

Ma poi trova sempre il riscatto nell'integralismo metafisica del nulla. A Mosca, in piena Perestroika, Luisa Viglietti ci racconta di quando interrompe una discussione a lui dedicata al teatro Majakovskij, irrompe in scena, comincia a dire con veemenza: «Bisogna dire agli spettatori che non c'è niente da capire! Che non possono capire. Uno solo avrebbe potuto capire quello che faccio, e l'avrei voluto qui, in sala, di fronte a me. Purtroppo non c'è. È Stalin! Perché lui faceva con voi, popolo russo, la stessa cosa che io sto facendo, ovvero condurvi dove meritate di andare: al nulla, al vuoto!». A quel punto gli interpreti russi tacquero e vennero spenti i microfoni.

Se oggi fosse ancora vivo, probabilmente parlerebbe male dei social network bollandoli come strumenti che mettono in comunicazione larve d'uomini, zombie ridotti a battere tutto il santo giorno su uno smartphone per

credersi ancora vivi. E magari farebbe un pensierino sull'eventualità di partecipare al Grande Fratello Vip. D'altronde anche nel suo teatro prima dell'inizio e dopo la fine si apriva e si chiudeva un mesto sipario consolatorio.

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