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"Quando i partigiani mi hanno rapata in piazza"

Nel suo nuovo romanzo "La repubblichina" Giampaolo Pansa racconta le donne del fascismo

"Quando i partigiani mi hanno rapata in piazza"

È stata la pipì ad avvisarmi che era tutto vero e non si trattava soltanto di un incubo. Di solito non mi scappava mai, il mio sistema idraulico, lo chiamerò così, era robusto e molto giovane. Del resto, avevo appena ventuno anni e mi ero sempre curata di fare molta attività fisica. Ma alla fine di aprile del 1945 non fui capace di trattenerla, la maledetta pipì. Mi inondò le mutandine e poi iniziò a scendere lungo le gambe. E quella sensazione calda, di bagnato che mi sporcava, è rimasta incancellabile per un tempo infinito. Della faccenda si accorse subito il partigiano incaricato di raparmi. Ringhiò: «Vedo che hai paura, troia fascista. Te la sei fatta addosso, come se tu fossi una vecchia puttana rimasta al servizio di Mussolini. Ma non devi temere nulla. Non ci metterò molto a tagliarti i capelli. E poi, vedo che li hai corti. Invece le altre fasciste sul palco insieme a te hanno delle capigliature da dive del cinema. Con loro l'affare sarà più complicato e mi prenderò delle belle soddisfazioni!».

Fu allora che mi resi conto di stare in piazza del Cavallo, nel centro della mia città, Casale Monferrato. Insieme ad altre sette donne, mi avevano spinta su una specie di palcoscenico costruito alla buona: quattro assi di legno e quattro cavalletti che reggevano a fatica i nostri corpi. E la folla raccolta intorno era lì per godersi lo spettacolo della nostra punizione.

Un pensiero mi colpì. Duro come uno schiaffo in piena faccia. Quante madri e quanti padri dei miei alunni mi stavano guardando? Come avrei potuto tornare a scuola e riprendere a insegnare dopo quello che mi stavano facendo? E così, mentre ai miei piedi si era formata una piccola pozzanghera di pipì, anche i miei occhi si inondarono di lacrime. Era il 2 maggio 1945, il fascismo repubblicano aveva perso la guerra, Mussolini era stato assassinato, in compagnia della sua morosa, la Claretta Petacci. I gerarchi più importanti, a cominciare dal segretario del partito, Alessandro Pavolini, li avevano fucilati tutti insieme nei dintorni di Como. Adesso era venuto il momento di rifarsi sui repubblichini senza importanza e soprattutto sulle repubblichine come la sottoscritta.

Il partigiano che doveva raparmi fu di parola e non ci mise molto. Lavorava con un rasoio vecchio come il cucco e con una macchinetta per tosare le pecore. Non era di certo un barbiere professionale. Mi procurò sulla nuca qualche ferita che iniziò a sanguinare. Fu il sangue, insieme alle lacrime e alla pipì, a obbligarmi ad aprire gli occhi. La tosatura era la mia punizione. E questo solo fatto doveva consolarmi. Parecchi dei miei camerati li avevano condotti sulla riva del Po rinchiusi in gabbioni di legno. E lì erano stati uccisi uno dopo l'altro con colpi di rivoltella alla nuca. Dunque potevo ritenermi fortunata. Mentre vedevo cadere sulle assi sconnesse del palco le ciocche dei miei capelli, mi domandai: «Perché sono qui? Che cosa ho fatto per meritarmi questa punizione e le urla rabbiose della gente che gode nell'assistere al nostro supplizio?». In fondo, ero soltanto una maestra elementare, con l'unica colpa di aver preso la tessera del Partito fascista repubblicano, un obbligo per poter avere una supplenza in qualche scuola di periferia e iniziare a insegnare.

Io, Teresa Bianchi, detta Tere, classe 1924, una ragazza di appena ventuno anni, non avevo mai combattuto per la Repubblica sociale. Mi ero limitata a fare il mio dovere di maestra elementare. E quando il nuovo regime di Mussolini stava per crollare sotto l'avanzata degli americani e degli inglesi, avevo deciso di nascondermi. Dunque non avrei dovuto essere messa in prigione e poi su quel palco. Ma adesso c'ero e non potevo sfuggire al castigo deciso dai vincitori.

Prima di venire rapata, mi era rimasto il tempo di dare un'occhiata alla folla che circondava l'impalcatura del nostro supplizio. E riconobbi qualcuno dei tanti che inveivano contro di noi. In gran parte erano maschi non più giovanissimi, quarantenni o cinquantenni. Vidi un giocatore professionale di bocce che frequentava il dopolavoro dell'Eternit ed era sempre stato un fascista convinto. Accanto a lui stava un portalettere delle Poste centrali, un altro tifoso di Mussolini. Infine una sarta al di là dei quaranta, con la fama di essere una lesbica senza pudore. Aveva tentato di mettere le mani addosso anche a me. Spasimava di avermi nel suo letto. Una volta mi aveva fermata proprio in piazza del Cavallo. Per dirmi, senza ritegno: «Tere, bella gioia, perché non provi il piacere di coricarti con un'altra femmina?». Nel frattempo, il partigiano tosatore concluse il suo lavoro, tra le urla di giubilo di chi apprezzava lo spettacolo. Chiesi a me stessa come mi sentivo. Ma a parte la pipì e il bruciore delle ferite sulla testa, non sentivo niente. Non provavo paura perché sapevo di non aver fatto nulla che comportasse la pena di morte.

Anzi, mi scoprivo calma e pensavo: «Prima o poi i tuoi capelli cresceranno di nuovo e sarai la bella ragazza di sempre». Uno dei vantaggi di avere ventuno anni è proprio questo.

Finalmente lo spettacolo terminò. E noi, donnacce del fascio, ci riportarono al carcere di via Leardi.

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