Quando l'automobile è una vera opera d'arte

Movimento e Bellezza tra architettura, pittura, moda e design secondo Norman Foster. Dai futuristi al futuro

Quando l'automobile è una vera opera d'arte

Bilbao (Spagna). L'automobile è creatività, innovazione, tecnologia, design, progresso, ingegneristica, arte. Ma soprattutto l'automobile è il proprio motore, il cui suono è unico. Ecco perché la grande mostra inaugurata ieri al museo Guggenheim di Bilbao, Motion, che ha per sottotitolo tre «A»: Autos, Art, Architecture (fino al 18 settembre), si chiude su un corridoio-tunnel lungo il quale scorrono in ordine cronologico le sagome minimaliste delle auto che hanno segnato la storia, dalla Patent Motorwagen prodotta nel 1886 dalla Benz (la prima auto con motore a scoppio) fino alla Formula 1 AMG della Mercedes (2020), lasciandosi dietro, in una esperienza sonora immersiva concepita da Nick Mason, membro dei Pink Floyd e pilota, il rumore del loro motore registrato in movimento. Sound and power. Spazzando via decenni di retorica ecologista, piste ciclabili, monopattini e aree pedonali. Un'esperienza molto liberatoria.

L'auto, prima di tutto, è libertà. Ciò che più la avvicina all'arte. Ed ecco qui la grande storia dell'automobile come oggetto d'arte, generatore di emozioni, motore di sviluppo e incarnazione dell'idea di Bellezza: come un dipinto di David Hockney, una scultura di Henry Moore, o anche solo una serigrafia di Andy Warhol...

Tre anni di lavoro, forse il progetto più complesso realizzato dal museo di Bilbao, un allestimento monumentale, la curatela di Norman Foster, architetto high-tech tra i più celebri al mondo e strepitoso collezionista di automobili («La prima che ho guidato? Una Morris di famiglia, negli anni '50. La prima della mia collezione? Una Jeep dell'esercito americano»), un circuito di sette sezioni che corre lungo altrettante sale, e soprattutto una sfida, che in inglese si dice challenge. Raccontare l'essenza dell'automobile attraverso tutte le discipline della creatività umana: l'auto, cioè il movimento, tra pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, moda, design. Motion ed emotion. Come dice Norman Foster, che è anche Lord, abito di velluto color prugna, calze rosse, 86 anni e un Pritzker Prize nel 1999, «l'auto non è solo tecnologia, ma espressione di una cultura». Si chiama stile. Inglese, italiano, francese, americano, tedesco...

Quattro ruote, cinque continenti, oltre quaranta veicoli esposti in mezzo alle sale e tutt'attorno dipinti, disegni, progetti, fotografie, video e manifesti, la mostra Motion, tra i futuristi e il futuro, tra estetica e funzione, è un'esaltazione del divertimento - in poche cose l'uomo è stato così bravo come nel costruire automobili - e del movimento: «Le automobili non hanno solo influenzato la vita culturale del '900, ne hanno plasmato ogni aspetto, fisico e metafisico. E ogni parte della nostra vita, da sempre, viene toccata dalle conseguenze della mobilità, che definisce tutti i nostri comportamenti», è l'idea di Norman Foster, appassionato di auto di ogni tipo e non a caso architetto di boulevard, ponti, aeroporti, stazioni ferroviarie. Il futuro è sempre di corsa. E anche Foster, a dispetto degli anni.

Quelli dell'automobile sono quasi duecento, e già alle origini, quando non si parlava ancora di auto elettriche e citycar, ma la propulsione mediante motori elettrici competeva con prototipi basati sul vapore e sulla benzina, attorno al 1830 Robert Anderson sviluppò la prima auto esclusivamente elettrica, che il chimico olandese Sibrandus Stratingh costruì su piccola scala... E oggi guidiamo le ibride...

Eclettica, trasversale, eterogenea e basata sulle scelte («assolutamente personali») di Norman Foster, la mostra vive anche di paradossi. Nei primi tempi le auto salvarono le città dai cattivi odori, dalle malattie e dalla sporcizia provocati dai veicoli trainati da cavalli, eppure, nell'attuale epoca di allarme climatico, hanno assunto il ruolo di mostri che inquinano l'ambiente. Eppure, sono così belle... Ecco una Ford «T» del 1914, in un inconsueto colore verde (le prime serie erano solo nere), la prima automobile a prezzo abbordabile: e lì c'è un autoritratto «automobilistico» di Man Ray del '36. Ecco la Rolls Royce 40/50 «Alpine Eagle» del 1914, lunga sette metri... Ecco la Voisin C7 «Lumineuse», affiacata dalle foto in posa di Le Corbusier. Ecco la cecoslovacca Tatra T87 , la prima auto studiata in un tunnel aerodinamic o. Tecnologia, Zeppelin e nazismo.

Qui invece ci sono le auto-capolavoro (fu Arthur Drexler, negli anni '50, a descrivere le auto «sculture vuote con ruote»): la Delahaye Type 165 (1938): rossa, bella e impossibile. La Bentley R-Type Continental (1953) sopra la quale, dal soffitto, pende un colossale mobile di Alexander Calder. Una Pegaso Z-102 «Cúpula» gialla («Un oggetto moooolto esclusivo...», come ci dice Foster). E una Bugatti Type 57 Atlantic, del '36, ideata e scolpita da Jean Bugatti con accanto due opere - una pantera e un elefante - di Rembrandt Bugatti, lo zio.

Poi c'è il salone delle auto «popolarissime», quelle di ogni giorno, ma che hanno segnato le epoche e le mode: la «Beetle» della Volkswagen (1951), «l'auto del popolo», appunto. La leggendaria Fiat 500 del '57. La BMW 600 del '57. La Austin Minor, anno 1966 con le fotografie di Mary Quant con minigonna in pendant su una Mini Optical...

L'auto è sempre più moderna, sempre più veloce, sempre più irraggiungibile. La sala «Sporting» è da sogno: Mercedes 300 SL Coupé con le portiere a «ala di gabbiano», 1955. La Ferrari 250 GTO in un esemplare del '62 e, perfezione per perfezione, là in fondo ci sono i progetti di Gio Ponti per il Pirellone, costruito fra il '56 e il '60. La Aston Martin DB5, quella di James Bond, e lì sulla parete scorrono le immagini del film Goldfinger, 1964. La Porsche 356 (l'arte che si fa leggerezza). E la Jaguar E-Type, che qui da noi guiderà Diabolik.

Dalla realtà alle visioni. I Visionaries sono gli artisti, gli ingegneri e i designer che si sono spinti all'esplorazione di forme radicalmente nuove, oltre la velocità e il movimento. Fantascienza, forme fluide e prototipi unici. C'è la Citroën DS che negli anni Sessanta era il futuro. La Alfa Romeo BAT 7 - che sta per «Berlinetta Aerodinamica Tecnica» - disegnata da Franco Scaglione nel '54. La Lancia Stratos Zero, del '70, senza portiere e parabrezza ribaltabile (all'epoca qualcosa fra la science ficton e Hollywood), e qui, tra aerei su ruote e utopie, bisogna alzare gli occhi e guardare le gigantesche foto «colorate» della serie Pit stop del 2007 del tedesco Andreas Gursky. Con i rumori delle Formula Uno in sottofondo, da brividi.

E per chi è convinto che il mito dell'automobile viaggi soprattutto on the road, ecco la sezione «Americana», l'ultima.

Diner, distributori di benzina, gli scatti di Dorothea Lange e Marion Post Wolcott, i dipinti di Ed Ruscha e Robert Indiana, una monumentale Cadillac Eldorado Biarritz del '59, una Mustang del '65, alettoni stravaganti, volontà di potenza, una lunga corsa dal New Deal al presente, con giù in fondo, però, un pericoloso crash di John Chamberlain appeso alla parete. E speriamo, come si dice convinto Norman Foster, che il futuro dell'uomo sia ancora la città, e che le automobili diventino spazi sempre migliori per vivere. Di solito, cercando parcheggio.

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