Quegli spendaccioni dei nostri cineasti

Cachet di attori e registi eccessivi, set troppo lunghi e dispendiosi: i film italiani costano troppo rispetto agli incassi che il mercato può dare. E c'è chi chiede di tornare a girare a Cinecittà

Quegli spendaccioni dei nostri cineasti

La verità? I film italiani, salvo quelli low budget spesso destinati all’oblio, costano troppo. Non in assoluto: rispetto a quanto incassano. Succede che il box office sia crollato dall’inizio dell’anno, e intanto la pirateria ha messo ko l’home video, l’imporsi dei multiplex sulle sale cittadine ha inferto un brutto colpo al cinema di qualità, i finanziamenti statali calano a meno di 40 milioni di euro. L’allarme viene da Riccardo Tozzi, presidente dei produttori e titolare di Cattleya, società che ha sfornato film come Romanzo criminale, La bestia nel cuore, Diverso da chi?. Ma già nel 2003 l’amministratore delegato di Medusa, Giampaolo Letta, aveva segnalato la tendenza: «Nel cinema girano meno soldi. Anche noi, pur mantenendo gli investimenti sul cinema italiano, dovremo essere più selettivi. E dunque mi pare sensato lanciare un richiamo sui compensi. Negli ultimi tempi si sono imposte cifre esagerate: 200, 300mila euro per un attore di medio richiamo, compensi milionari per alcuni registi... Sarebbe bene fare un passo indietro, per il bene del cinema».

Da allora le cose sono peggiorate. Ecco la ricetta di Tozzi: «Intanto bisogna tornare a lavorare a Cinecittà, per abbattere i costi e i tempi di produzione troppo onerosi». Tutto nascerebbe da un’anomalia: «Negli anni dei film “due camere e cucina” lasciammo gli studi perché costavano troppo, tutti a girare dal vero. Ma oggi girare in un interno significa usare sei camion per strada, che bloccano il traffico, fanno imbestialire i cittadini e perdere un sacco di tempo. Non si può più». In effetti, i registi italiani esigono in media dieci settimane di riprese, c’è chi arriva a sedici-diciotto. Un’esagerazione se pensate che Clint Eastwood ha completato Gran Torino in sette. Dunque: Cinecittà. Carlo Verdone, con Io, loro e Lara, l’ha fatto, Pupi Avati non ha mai smesso, ma sono casi rari. «Non basta l’iniziativa del singolo», precisa Tozzi: «Dobbiamo sfruttare gli incentivi europei, tornare in massa agli studi per creare economie di scala: solo così i prezzi si abbasseranno».

Magari non è solo questione di esterni se i costi sono lievitati. Colpa delle irragionevoli richieste di alcuni attori e registi, pronti a rivendicare cachet fuori mercato (i 250mila euro di Giovanna Mezzogiorno e Sergio Castellitto, ad esempio, ma costano molto anche autori come Amelio, Salvatores, Giordana, Bertolucci); dei contratti di lavoro delle troupe, rigidi sul versante degli orari; di una certa tendenza a tirar per le lunghe le riprese e il montaggio; del rifiuto delle tecnologie digitali. Non che in Francia far cinema costi meno. Se in Italia il budget medio di un buon film d’autore s’aggira sui 4-4.5 milioni di euro, lì si arriva a 6, ma è l’insieme dell’industria a tenere meglio: girano più soldi, le tv (generaliste e pay) pagano molto meglio, l’offerta è più varia, tra fantascienza, polizieschi, horror, storie in costume ad altissimo budget. Come avviene a casa nostra, per esempio con Baarìa, il kolossal di Tornatore da 20 milioni di euro e 25 settimane di riprese che aprirà la Mostra di Venezia, comunque interamente pagato con denaro privato. Tutto ciò mentre, in attesa che il nuovo contratto degli attori provochi un’impennata dei prezzi, alcune firme hollywoodiane si cimentano, per gusto creativo, voglia di libertà e strategia commerciale, con film a basso costo (per loro: cioè tra i 5 e 10 milioni di dollari), spesso girati in digitale, in poche settimane, senza star. Qualche titolo? Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme, The girlfriend experience di Steven Soderbergh (starring la porno star Sasha Grey), Drag me to Hell di Sam Raimi, Tetro di Francis Ford Coppola, Somewhere della figlia Sofia, realizzato in 22 giorni.

Ragiona Angelo Barbagallo, ex storico socio di Moretti nella Sacher, ora produttore di film ricchi come Sanguepazzo di Giordana e Fortàpasc di Risi: «Il problema non è che costano troppo, è che abbiamo meno soldi. Poi, certo, i nostri registi tendono a girare più di quanto si potrebbe. La soluzione è differenziare i progetti, per non ritrovarsi film tutti uguali sul piano stilistico e delle storie. Se spendi 5 milioni è chiaro che devi fare i conti col mercato, sempre più asfittico. Se ne spendi uno e mezzo puoi sentirti libero di osare, sperimentare. Vale anche per gli attori, che preferirei più duttili. Infine c’è il fattore euro: da noi, a differenza di altri Paesi europei, tutto s’è raddoppiato».

E i registi che dicono? È vero che chiedono troppo? Il padovano Enzo Monteleone ha le idee chiare: «Guardi, i famosi film indipendenti americani non incassano neppure da noi. Solo gli eventi fanno il pieno. Per quanto mi riguarda, ho sempre lavorato in velocità, cercando di far risparmiare. El Alamein, che pure era un film di guerra: sette settimane. Due partite: sei settimane. Tozzi ha ragione su Cinecittà. Ma poi pensi a Gomorra e chi potrà mai dire che poteva essere girato in studio?». Quindi... «Si rischia di tornare alle due camere e cucina. A chi proponi storie in costume, di guerra, in giro per il mondo? Il cinema è un giocattolo costoso, non si fa con un pennello o un computer. Bisogna valutare costi e rese.

I costi non li alzano i registi, ma le settimane di riprese e il supercast. Però sono loro, i produttori, a volere i divi». Morale: «Ogni film ha il suo budget. Non possiamo fare tutti miracoli a costo zero come Pranzo di ferragosto o superproduzioni come Baarìa. Non crede?». Crediamo.

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