Fu una felice invenzione di Massimo d'Azeglio la fortunata etichetta di «Re Galantuomo» che insieme a quella di «Padre della Patria» accompagnò il processo di «mitizzazione» della figura di Vittorio Emanuele II durante tutto il Risorgimento e diffuse l'idea di lui come di un Re garante delle libertà costituzionali e paladino del processo di unificazione nazionale. E, fra tutti i politici del suo tempo, D'Azeglio, chiamato alla presidenza del Consiglio dal nuovo Re subito dopo l'abdicazione di Carlo Alberto, fu, probabilmente, il più vicino a Vittorio Emanuele II. Non è un caso che questi, al di là e al di fuori di ogni rigida regola o etichetta di corte, lo trattasse con grande familiarità entrando senza preavviso nel suo studio e sedendosi informalmente sulla sua scrivania per discutere di politica, ma anche di altro.
L'espressione «Re Galantuomo» venne coniata agli inizi del nuovo regno, quando, dopo la sconfitta di Novara e l'abdicazione del padre, il giovane Vittorio Emanuele si incontrò a Vignale con il generale austriaco Radetzky per discutere i termini dell'armistizio. Di quell'incontro non si hanno resoconti diretti perché i due si parlarono da soli, l'uno di fronte all'altro in uno spiazzo, mentre gli ufficiali e le persone al seguito osservavano la scena da lontano attenti a cogliere sui volti dei due espressioni rivelatrici dei loro sentimenti. Di ciò esiste traccia nell'iconografia coeva perché gli artisti, a seconda che fossero austriaci o piemontesi, rappresentarono la scena in modo da trasmettere sensazioni contrastanti. Quel che è certo è che il Re di Sardegna rifiutò di abolire lo Statuto concesso dal padre, il che sarebbe stato possibile con l'aiuto delle baionette austriache. Lo fece, probabilmente, soprattutto per realismo politico. Ma l'immagine del «Re Galantuomo», del sovrano che non si lascia convincere dalle lusinghe austriache di trasformare la sconfitta in una vittoria e che riesce a tener testa al feldmaresciallo dell'imperial-regio governo, divenne popolare. E tale immagine finì per indicare, nell'immaginario collettivo, una vera e propria identificazione in Vittorio Emanuele II del programma liberale e costituzionale con le pulsioni nazionali e unitarie.
Vittorio Emanuele II era cresciuto, per così dire, nell'assolutismo ed era poco propenso agli studi umanistici, storici o filosofici. Sanguigno ed esuberante, amava la caccia allo stambecco così come le avventure galanti e la vita all'aria aperta. Disinibito nei rapporti sociali, era insofferente alle rigide regole dell'etichetta di Corte e, comprensibilmente, non nutriva simpatie per teorie e movimenti politici democratici o liberali che potessero mettere in discussione la pienezza dei poteri sovrani. Non a caso, ancora Massimo D'Azeglio, accennandone alle idee, parlò di un «malcerto liberalismo» del sovrano. La verità è che Vittorio Emanuele II fu un uomo sostanzialmente pragmatico e realista capace di conciliare le aspirazioni di unità e indipendenza dei patrioti, fossero anche liberali e democratici, con gli interessi della propria antichissima dinastia cui, malgrado il suo anticonformismo comportamentale, egli era legato da un sentimento di orgogliosa appartenenza. È sintomatico il fatto che, con l'andar del tempo, il processo di identificazione tra i Savoia e il processo risorgimentale andò sempre più rafforzandosi come conferma, per esempio, l'esortazione dalle carceri borboniche di un liberale moderato, il napoletano Carlo Poerio, a vedere «sempre e solo nel Piemonte la nostra stella polare».
All'immagine iconica del «Re Galantuomo» se ne aggiunse un'altra, che contribuì a rafforzare la leggenda del «padre della patria», quella del Re ardimentoso che non si risparmiava in battaglia e che, malgrado le raccomandazioni e gli inviti alla prudenza, voleva essere vicino ai suoi soldati condividendone gli sforzi e le sofferenze. L'episodio più significativo si svolse all'epoca della seconda guerra di indipendenza, in occasione della battaglia di Palestro il 31 maggio 1859. Quel giorno Vittorio Emanuele II si gettò a capofitto nella mischia guidando all'assalto i bersaglieri piemontesi e gli zuavi francesi capovolgendo le sorti dello scontro. A notte inoltrata un ufficiale francese, accompagnato da una delegazione di zuavi, si presentò presso l'alloggio da campo di Vittorio Emanuele II offrendogli simbolicamente i galloni di caporale. E, a quanto si racconta, da allora in poi, ogni sera per tanti anni, il Terzo zuavi chiamava regolarmente all'appello «il caporale Vittorio Emanuele di Savoia» e il sergente anziano rispondeva: «assente perché Re d'Italia». Solo la sera del 9 gennaio 1878 il sottufficiale francese rispose commosso alla chiamata: «il caporale Vittorio Emanuele di Savoia è morto questa mattina». Non è da escludere, come ha ipotizzato qualche studioso, che l'agiografia abbia colorito l'episodio ma rimane il fatto che i galloni di caporale degli zuavi sono conservati nell'Armeria Reale di Torino.
La seconda guerra di indipendenza era giunta al termine di quel «decennio di preparazione» che aveva visto, grazie all'azione del conte Camillo Benso di Cavour, prima, la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea e l'internazionalizzazione della «questione italiana» e, poi, gli accordi di Plombiéres con Napoleone III. E questi accordi erano costati sacrifici di non poco conto come il matrimonio della figlia di Vittorio Emanuele II, la devota e giovanissima Clotilde, con l'attempato e libertino Gerolamo Napoleone, oltre alla promessa della cessione di Nizza e della Savoia. La guerra con l'Austria si concluse, lasciando l'amaro in bocca, con l'armistizio di Villafranca, voluto dall'imperatore dei francesi, preoccupato dal paventato intervento delle armate prussiane ma ancor più dalla prospettiva di un eccessivo ingrandimento del Piemonte.
In questi anni il pragmatismo di Vittorio Emanuele II si era incontrato, ma anche scontrato, con il pragmatismo del conte di Cavour. I due uomini erano profondamente diversi se non per altro per la diversa concezione che essi avevano del ruolo dei ministri e dello stesso Parlamento, ma in comune avevano, entrambi, l'idea della necessità della guerra all'Austria. E, malgrado le differenze fra i due, il «decennio di preparazione» aveva gettato le basi per portare avanti il processo risorgimentale. Anche di fronte alla spedizione dei Mille le posizioni dei due erano state inizialmente diverse con un Vittorio Emanuele II da subito favorevole all'impresa forse affascinato dalle personalità guerriera di Giuseppe Garibaldi, il quale, messe da parte le suggestioni mazziniane e repubblicane, avrebbe inalberato l'insegna «Italia e Vittorio Emanuele» a avrebbe, poi, riconosciuto che il Re era stato «il perno» attorno al quale lui e i suoi si erano raggruppati e avevano fatto quel che avevano fatto.
Il maggior contributo al Risorgimento, però, Vittorio Emanuele II lo dette non solo e non tanto con il suo pragmatismo ma anche, e soprattutto, con la sua azione in politica estera.
Qui egli e lo hanno riconosciuto storici del calibro di Gioacchino Volpe e di Federico Chabod ebbe la capacità, affiancando e talora sovrapponendo la sua diplomazia personale alla diplomazia di governo, di rassicurare le Corti europee sull'esito non destabilizzante, a livello di equilibri internazionali, del Risorgimento italiano. Sotto questo profilo, almeno, egli fu davvero il «padre della Patria».
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