Data l'attuale situazione e le liaisons dangereuses tra il nostro governo e la Cina, non stupisce che siano passati sotto silenzio i sessant'anni dell'insorgenza tibetana contro la Cina maoista. Per la verità cadevano l'anno scorso, ma quest'anno, di anniversari, ce n'è un altro che fa il paio: i 2500 anni della battaglia delle Termopili, in cui un pugno di eroi si sacrificò contro un impero sterminato pur sapendo di essere senza speranza. Quello tibetano fu, come le insorgenze antinapoleoniche, un movimento di popolo del tutto spontaneo e altrettanto destinato alla sconfitta. Ne parla un recentissimo libro di Gianluca Frinchillucci e Laura Bacalini, Il Dorje e la Spada. La resistenza armata tibetana contro l'invasione cinese (1950-1974) edito da Il Cerchio (pagg. 84, euro 18).
Quando tutto iniziò, il Dalai Lama, Tenzin Gyatso, era già scappato a Dharamsala, nel nord dell'India, inizialmente accolto con imbarazzo dal premier indiano, il Pandit Nehru, nello stato dell'Himachal Pradesh, dove ancora risiede il governo tibetano in esilio. L'invasione del Tibet era stata annunciata da Mao Zedong già nel 1949, appena sconfitto il rivale nazionalista Chang Kaishek e praticamente all'atto dell'insediamento al potere. Bisognava liberare il Paese delle Nevi dalle «influenze imperialiste occidentali», secondo un frasario tipicamente comunista (nelle guerre precedenti si invadeva e basta, ma con i giacobini si cominciò a ricorrere a quelle ipocrisie retoriche che da allora non ci hanno più abbandonato, dall'«intervento fraterno» all'«esportazione della democrazia»).
Così, nell'ottobre 1950 l'immensa armata «popolare» si mosse verso il Tetto del Mondo. Tutte le «influenze imperialiste occidentali» in Tibet erano rappresentate da tre (tre!) uomini: uno era il telegrafista Robert Ford, unico ingi (cioè inglese) regolarmente assunto dal governo tibetano; gli altri due li abbiamo visti al cinema, erano gli alpinisti austriaci Heinrich Harrer (l'autore di Sette anni in Tibet) e Peter Aufschnaiter, scappati da un campo di concentramento inglese in India e arrivati, dopo mille avventure, a Lhasa. La capitale, Lhasa appunto, fu aggirata dai cinesi, che preferirono penetrare in Tibet da vari punti. Uno di questi era la fortezza di Chamdo, nel distretto di Kham, che conservava il più importante deposito di armi del Paese. Il governatore Ngapo Ngawang Jigme, vista l'impossibilità di resistere, si arrese senza neppure combattere, limitandosi a far saltare in aria il deposito. Ma così il popolo si ritrovò disarmato, e la successiva resistenza dovette procurarsi i pochi residuati bellici che riuscì a racimolare oltre confine.
Nel 1951 Ngapo fece parte della delegazione che, praticamente deportata a Pechino, fu costretta a firmare l'«Accordo dei diciassette punti», che i cinesi puntualmente non rispettarono. Cominciarono le angherie, gli espropri forzati, le uccisioni anche per futili motivi, le razzie per approvvigionare gli occupanti, le distruzioni di monasteri da parte dei nuovi padroni atei. Non solo. Anche il Tibet conobbe le riforme agrarie maoiste e semplicemente folli che provocarono carestie e relativi morti per fame a migliaia. Nel 1956 il generale tibetano Andrung Gompo Tashi radunò un esercito di volontari, detto Chushi Gangdruk (letteralmente: Quattro Fiumi e Sei Montagne), con tanto di bandiera (spade con il Dorje, simbolo di energia pura, come elsa). Seimila irregolari armati alla men peggio intrapresero una guerriglia contro gli occupanti scendendo dai loro nascondigli in montagna e attaccando gli avamposti militari cinesi. La popolazione li appoggiava e aiutava in ogni modo. Ma anche i tibetani avevano i loro collaborazionisti, compensati, paradossalmente, dai cinesi che non sopportavano Mao. Uno di questi fu l'ufficiale di artiglieria Chang Hoter che addirittura passò con i partigiani.
L'americana Cia inizialmente aiutò la resistenza, ma la abbandonò al suo destino quando Nixon e Kissinger aprirono alla Cina con la «politica del ping-pong». Nel 1959 i cinesi decisero di prendere il Dalai Lama e portarlo a Pechino. Questi, travestito, scappò in India seguito da 150mila tibetani che non intendevano lasciare il loro dio-re.
Nel 1974, Sua Santità Gyatso ordinò la «Via di Mezzo», cioè la politica di non-violenza contro la Cina. E fu a quel punto che i rivoltosi deposero le armi, sia per obbedienza che per impossibilità, a quelle condizioni, di proseguire la lotta. Furono in molti allora, tra i tibetani, a scegliere il suicidio.
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