«L’arte consiste nel fare qualcosa di nessun valore e in seguito nel riuscire a venderla» disse una volta Frank Zappa. E una parte del genio zappiano è stata proprio riuscire a vendersi. Dribblare le pressioni delle case discografiche, imporre sul mercato una quantità enorme di musica difficilissima e coltissima facendola passare per provocazione, colore, e a volte semplice sfottò. Ora la famiglia del geniale chitarrista compositore californiano (ma originario di Partinico, Palermo) scomparso nel 1993 ha finalmente siglato l’accordo con la Universal per la riedizione integrale della discografia. Gli aficionados e i curiosi avranno a disposizione tutta la collezione. 60 dischi realizzati in 27 anni di carriera, testimoni di un’urgenza creativa inarrestabile, che verranno ripubblicati tra luglio e dicembre 2012. Visto il calo di vendite dei Cd «normali» le case discografiche puntano sui mercati di settore e sui classici: sembra una scelta sensata.
Che poi a riascoltare qualche assaggio di classici zappiani, a testa fredda, dopo i furori politici degli anni ’70, emerge semplicemente la figura di un compositore con i controfiocchi: inincasellabile e inarrestabile. Avanguardista all’europea (fu ispirato dal rumorismo di Edgar Varese), jazzman e doowopper all’americana. Capace di partire dalla descrizione di momenti e situazioni volutamente sordide: il magnaccia di Willie the Pimp, il fetore di piedi in Stinkfoot, la malattia venerea in How does it hurt when i pee, l’urina dei cani sulla neve in Don’t eat the yellow snow (ma gli esempi sarebbero infiniti) per proporre degli «squisiti momenti musicali», come l’autore stesso li definiva. Azzerando così l’aura di sentimentalismo, di romanticismo decadente, di estetismo di certo rock, perché in fondo diceva una sua canzone «i cuori spezzati sono roba da stronzi».
Da qui la vena cinico-umoristica di Zappa. Che lo portava a dire: «Alcuni scienziati affermano che l’idrogeno, poiché sembra essere ovunque, è la sostanza basilare dell’universo; non sono d’accordo. Io dico che c’è molta più stupidità che idrogeno». Oppure «Sono stanco di suonare davanti a gente che applaude per il motivo sbagliato».
Un aristocratico del rock, quindi. Maniacalmente fissato con la qualità musicale, capace di imporre sedute di registrazione infinite ai musicisti: di far loro memorizzare cinque o sei arrangiamenti per ciascun brano, da cambiare all’istante, a comando, sul palco. Alle audizioni per i nuovi musicisti da inserire nella band partecipavano in molti (e moltissimi saranno i futuri leader provenienti dal suo gruppo: Dal chitarrista Steve Vai al violinista Jean Luc Ponty, al batterista Vinnie Colaiuta) ma quasi tutti le ricordavano come incubi.
L’aspetto più strano di Zappa (e per certi spetti terrificante nel mondo rock) era la sua assoluta normalità nello stile di vita: moglie, tre figli, una casa e un immenso studio in cantina. Il suo odio per le droghe era un aspetto ancora più singolare, almeno quanto il disgusto per l’ideologia. Il fotografo Guido Harari ha ricordato: «In casa era un americano normale. Aveva ricevuto un invito in Italia per un festival: l’agente gli disse che era roba organizzata dai comunisti, lui non venne, anzi inviò una foto con la bandiera a stelle e strisce». Perché nell’inclassificabile fisionomia zappiana convivevano battaglie libertarie (come quella degli anni ’80 contro la senatrice Tipper Gore, che voleva imporre la censura alle copertine dei dischi, che portò Zappa a parlare per cinque ore al Congresso) e feroci attacchi al politicamente corretto. E come dicevamo all’inizio, la sua assoluta pretesa di libertà creativa lo portò ad autofinanziarsi dischi, prove (lunghissime e costosissime) e tour.
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