La Rivoluzione d'ottobre? È tutta nel "Caso Tulaev"

Un assassinio, cinque uomini moralmente colpevoli e la violenza di uno «stato totalitario e castrocratico»

La Rivoluzione d'ottobre? È tutta nel "Caso Tulaev"

Il caso Tulaev (Fazi Editore, pagg. 428, euro 28, traduzione di Robin Benetti, introduzione di Susan Sontag) di Victor Serge uscì quando il suo autore era appeno morto. Nato nel 1890, Serge aveva attraversato faticosamente la rivoluzione bolscevica e la controrivoluzione, la repubblica di Weimar e la guerra civile spagnola, gli anni dell'esilio e quelli della galera, una decina, quest'ultimi, in totale, per poi approdare in Messico quando la Seconda guerra mondiale aveva fatto dell'Europa una tagliola in cui rischiava di lasciarci la pelle, indipendentemente da chi, Hitler, Stalin, la Francia sconfitta di Vichy, l'avesse armata. Era antinazista, Serge, aveva smesso di essere trockista, era divenuto anticomunista, restava idealmente un rivoluzionario. Nella capitale messicana fece in tempo a scrivere le sue memorie, che restano fra le più belle del Novecento, cominciò la stesura di un libro sulle culture autoctone del Paese, terminò il grande romanzo che aveva lo stalinismo come suo motore immobile, Il caso Tulaev, appunto. Denutrito, malconcio, sofferente di cuore, lo schiantò un infarto su un taxi e il suo corpo venne scaricato dal conducente davanti a una stazione di polizia. Ci vollero un paio di giorni perché i familiari ne venissero a conoscenza.

A un secolo dalla Rivoluzione d'ottobre, Il caso Tulaev resta il romanzo più inquietante sul fallimento della stessa, più lucido rispetto a Buio a mezzogiorno, il capolavoro di Koestler che l'aveva preceduto e dove la cupezza del totalitarismo aveva la tragica grandezza della fedeltà al Partito come giustificazione del proprio annientamento in quanto individui. Qui, invece, da un lato c'è «la rivoluzione come faccenda di pazzi che ragionano», dall'altro l'idea che l'assassinio ne sia l'elemento consustanziale, sia come atto politico, sia come atto gratuito, la repressione e la ribellione (meglio, la protesta) come due facce dell'identica medaglia. Nella bella e partecipe introduzione, Susan Sontag osserva che «quando Kostyia, l'autore rimasto sconosciuto del delitto, tormentato dal rimorso per aver scatenato ulteriori ingiustizie, manda una confessione anonima al procuratore capo che si occupa del caso, Fleischman, quest'ultimo, ormai prossimo a finire lui stesso arrestato, brucia la lettera, raccoglie la cenere e la sbriciola sotto il pollice; poi con sollievo e triste sarcasmo mormora a mezza voce a se stesso: Il caso Tulaev è chiuso. La verità, compresa una confessione autentica, non trova posto in quel tipo di tirannia cui ha dato vita la Rivoluzione».

In Buio a mezzogiorno, Rubasciov e il suo inquisitore Ivanov si confrontano e si comprendono perché sono fatti della stessa pasta, due vecchi rivoluzionari per i quali la verità è sempre e comunque al servizio dell'idea. Ma, come racconta Serge, nel momento in cui si è «pervertiti dalla fede cieca in un potere senza fede», è l'idea stessa ad andare in cortocircuito, il mezzo che si è sostituito al fine, il fine che trova il suo perché nella vuota ma esaltata ripetizione del mezzo... «I vecchi del partito si evitavano reciprocamente per non guardarsi negli occhi, non mentirsi ignobilmente per una ragionevole vigliaccheria, non inciampare nel nome di compagni scomparsi, non compromettersi stringendo una mano, non avvilirsi rifiutando di stringerla». Nella rete a strascico che l'assassinio di Tulaev, membro del Comitato centrale del Partito, mette in azione, alla fine i colpevoli prescelti saranno cinque: l'intellettuale Rublev, l'alto commissario di polizia Erchov, il contadino-soldato Makeev, il vecchio bolscevico Kondriatiev e il trockista irriducibile Ryjik. A tutti si chiederà il sacrificio supremo per una causa a cui hanno già sacrificato tutto. Nessuno preferirà la denuncia degli orrori del regime all'ammissione della propria colpevolezza, non tutti accetteranno quest'ultima allo stesso modo. C'è chi si suicida e chi si lascia ammazzare senza collaborare, c'è chi riesce, nonostante tutto, a sopravvivere, anche se non sa per quanto...

Il fatto è, scrive Serge, che «ci serviamo dell'ascia per eseguire operazioni chirurgiche», oppure, riprendendo Marx e il suo «ho seminato draghi e raccolto pulci», l'Urss «non fa che seminare draghi e nelle epoche di tempesta ne produce qualcuno possente, alto, munito d'artigli, dotato di un magnifico cervello, ma i loro discendenti non sono che pulci, pulci ammaestrate, pulci fetide, pulci, pulci!». Romanzo epico e polifonico, Il caso Tulaev è anche in controluce lo specchio dell'esistenza di chi, come il suo autore, era stato «un esule politico fin dalla nascita» e la cui intera vita era ruotata intorno alla rivoluzione come messinscena della tragedia moderna. Primo in assoluto a definire l'Urss «stato totalitario», nessun altro romanziere del Novecento, nota ancora Susan Sontag, aveva avuto come Serge «un'esperienza diretta, di prima mano, della rivoluzione, rapporti così stretti con leader storici, dialogato con intellettuali che hanno lasciato un segno nella politica. Aveva conosciuto Lenin, aveva tradotto in francese Stato e Rivoluzione»...

Bolscevico, lo fu alla luce di una matrice anarchica riveduta e corretta in cui il fattore umano restava preponderante e non poteva essere sottomesso a discipline di partito e ai fini ultimi di una causa nella quale annullarsi. «La repressione non appena cadono le garanzie di libertà individuale della civiltà moderna, non procede più che per approssimazioni alla cieca e con ragione si impantana nella confusione». E ancora: «La grandezza della rivoluzione russa disarmava tra i suoi partigiani lo spirito critico; sembrava concepissero l'adesione come un'abdicazione al diritto di pensare». Ciò che in fondo salvò Serge, uno che come rivoluzionario era stato comunque pronto ad accettare «le necessità» della Storia, anche le più terribili, fu proprio il rifiutare la gratuità di un potere che finiva per somigliare se non per sopravanzare quello contro cui lui e molti altri si erano sollevati: «Il socialismo porta in se stesso germi di reazione. Sul terreno russo questi germi hanno prodotto una prospera fioritura.

Oggi noi siamo sempre più in presenza di uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza, per cui l'uomo non conta». Il caso Tulaev racconta proprio questo, il lungo inverno del nostro scontento in cui la dignità della persona umana venne congelata da e nel terrore.

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