"Cape Fear", il promontorio a picco sul mare della paura

"Cape Fear", il promontorio a picco sul mare della paura

«La tensione narrativa è lì, senza bisogno di inventarsi scene all'insegna di una evitabilissima violenza grafica». Se a pronunciarle è il maestro contemporaneo per eccellenza della suspense, Jeffery Deaver, parole come queste rappresentano una garanzia per il lettore. L'autore de Il collezionista di ossa cita regolarmente John D. MacDonald e il quasi omonimo Ross Macdonald tra chi maggiormente lo ha influenzato, accostandoli spesso al genio della suspense per antonomasia, Alfred Hitchcock. E Deaver non è certamente l'unico grande autore americano contemporaneo a farlo.

Cape Fear di John D. MacDonald, riproposto ora al pubblico italiano (Mattioli1885, pagg. 199, euro 16, traduzione di Nicola Manuppelli) è uno dei romanzi più rappresentativi della seconda generazione di scrittori hardboiled, quella cresciuta all'ombra di giganti come Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Sono in molti a conoscerlo, se non altro per due fortunate trasposizioni cinematografiche. Il romanzo uscì per la prima volta in America nel 1958 con il titolo The Executioners, ma persino negli Stati Uniti è noto soprattutto con il titolo Cape Fear, ereditato dalla prima versione di Hollywood.

Sam Bowden e sua moglie Carol sono la coppia perfetta e, insieme ai due figli maschi ancora bambini e alla figlia Nancy dalla femminilità pronta a sbocciare, formano la famiglia perfetta, cui fanno da corollario un cagnolino, un'elegante villa in un ambiente paradisiaco e una posizione economica invidiabile. Peccato che un'ombra sinistra oscuri il tranquillo tran tran quotidiano: Max Cady, un ex-militare appena uscito di prigione dove ha scontato una pena per violenza sessuale, non appena tornato in libertà inizia a ossessionare Sam e famiglia con la sua scomoda presenza nei paraggi della loro abitazione. È un uomo violento e pericoloso che lo stesso Sam Bowden ha fatto finire in galera e che pare intenzionato a fargliene pagare il prezzo, con il suo atteggiamento sinistro, le sue minacce sottili, in un malato gioco a rimpiattino fra le paure dei Bowden e le fragilità della giovane Nancy.

«Non ho mai fatto mistero - ci dice Joe Lansdale - del fatto che Cape Fear è uno dei miei romanzi preferiti e il miglior libro scritto da MacDonald. La suspense crepita come un filo elettrico scoperto durante un temporale. La prima versione cinematografia è splendida, la seconda meno».

In effetti, la versione diretta nel 1991 da Martin Scorsese, malgrado la presenza di Robert De Niro, Nick Nolte e Jessica Lange, fa rimpiangere quella originale del 1962, per la regia di J. Lee Thompson, con Robert Mitchum, Gregory Peck e Polly Bergen. In ogni caso, meglio leggere il romanzo: la violenza è una sottile allusione, un gioco di suggestioni e, a differenza dei romanzi della serie dell'investigatore privato Travis McGhee - probabilmente il personaggio di maggior successo creato da MacDonald - qui lo stile narrativo non è condito di sarcasmo e cinismo taglienti, caratteristiche che hanno sempre stemperato gli aspetti più crudi delle sue storie. Piuttosto assistiamo al lento dipanarsi dell'ineluttabile. In Cape Fear non c'è una parola fuori posto e questo spiega quanto sia amato dai grandi interpreti internazionali del noir.

Secondo il francese Patrick Raynal, per anni curatore della serie di gialli più celebrata d'Europa, la «Série noire» di Gallimard, «siamo in bilico tra legge e ordine, impulsi primitivi di odio e vendetta. Per quanto sfrenati siano i film, la fine del libro è ancora più gelida. Leggete il libro, guardate i film e poi scoprite i settantuno libri del grande John D. McDonald». Secondo James Grady, maestro della spy story moderna, «MacDonald ha guidato la letteratura popolare americana dalla fine degli anni Cinquanta a metà anni Settanta, invogliando i lettori a riscoprire i libri che si erano persi e in cui si parlava con intensità di eroi solitari, di perdenti che si ergevano a paladini della giustizia.

Libri contenenti sesso - a piccole dosi - cattivi, temi di grande rilevanza e un senso di necessità e isolamento grazie al quale i lettori avevano la sensazione che le trame di MacDonald riflettessero la realtà in modi non convenzionali».

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