A chiunque mi chieda cosa faccio per vivere, rispondo che porto all'attenzione del grande pubblico eroi della storia che meritano la ribalta. Non è ciò che si fa quando si divulga la storia? Spartaco non avrebbe più notorietà di altri ribelli al dominio di Roma se Howard Fast non ci avesse scritto un romanzo e Kubrick fatto un film; e William Wallace, l'eroe dell'indipendenza scozzese, non sarebbe molto conosciuto al di fuori dei confini nazionali se Mel Gibson non ne avesse fatto una storia da Oscar con il suo Braveheart.
La commistione tra letteratura e cinema è ormai talmente stretta che oggi, nello scrivere un romanzo storico, non ci si pone più solo il problema della fedeltà delle fonti dell'epoca, ma anche dell'aderenza a un linguaggio e a una rappresentazione dei personaggi che siano più familiari al grande pubblico. E poiché siamo nella civiltà dell'immagine, il grande pubblico si è abituato a ragionare in termini associativi, ovvero associando le immagini che scorrono su uno schermo, piuttosto che deduttivi, ovvero deducendo da un testo una sequenza di eventi e l'aspetto dei personaggi.
La concorrenza dei prodotti televisivi e cinematografici è troppo forte per non tenerne conto. Anche il libro più scorrevole e leggero può risultare soporifero di fronte a una serie televisiva che trasuda avventura, tensione, sesso e violenza. E non solo per i giovani. E se il fine primario del divulgatore storico deve essere quello di divulgare la storia, è necessario farlo mettendo i fruitori in condizione di faticare il meno possibile, evitando loro di essere aggrediti dal nemico più insidioso e sempre in agguato: la noia.
Prendiamo il protagonista del mio ultimo romanzo, Athanasius Kircher. Ben pochi lo conoscono e io stesso non ne avevo mai sentito parlare, prima di approfondirlo a fini narrativi. Eppure ai suoi tempi era famoso in tutto il mondo ed era considerato un genio, una sorta di Leonardo da Vinci del Seicento: inventore, illusionista, docente di uno svariato numero di materie, poliglotta, e presunto decifratore dei geroglifici, prima che la scoperta della stele di Rosetta, oltre un secolo dopo di lui, lo smentisse in toto. Per riportarlo in auge con un romanzo non potevo dipingerlo esclusivamente come un topo di biblioteca. Né potevo raccontare una storia priva di avventura e di suspense: i lettori, che spesso aprono un libro la sera a letto, vanno tenuti svegli, non aiutati ad addormentarsi. Così, ho scelto di farne un Indiana Jones, uno studioso costretto ad abbandonare la sua aula universitaria e a girare il mondo affrontando pericoli e risolvendo enigmi.
Ma non basta. Ci vogliono anche un nemico, una sfida e una spalla, o un mentore. E magari una storia d'amore. E una corsa contro il tempo, per aumentare la tensione. Ne L'enigma del gesuita, come in tutti i miei libri, mi sono quindi sforzato di inserire tutti questi elementi, in un modo o nell'altro, perché costituiscono gli snodi attraverso i quali si dipana una vicenda in grado di colpire l'emotività del lettore. Ciò che colpisce l'emotività, è cosa nota, coinvolge e rimane impresso ben più di una fruizione oggettiva, di un saggio, di un documentario o di una qualsiasi opera che privilegi l'informazione senza troppo badare alla forma con cui viene proposta.
È proprio questa la chiave del successo crescente del romanzo storico nell'ultimo decennio. In precedenza, gli autori privilegiavano l'aspetto descrittivo, per mostrare di essersi ben documentati sull'epoca narrata. Dopo il successo di un film come Il gladiatore, hanno iniziato a rendersi conto che la fedeltà alle fonti era sì importante, ma non a scapito del ritmo e del coinvolgimento emotivo. Per spingere il grosso pubblico ad approfondire un evento storico è meglio un film bello e avvincente ma con qualche forzatura storica, o un brutto film ma preciso storicamente? Per quanto mi riguarda non ho più dubbi: ed è una conclusione cui sono giunto dopo decenni di riflessione, dopo essere andato al cinema e aver letto libri con l'intento del correttore di bozze, stando attento a cogliere le imprecisioni più che a godermi la storia in sé e a farmene coinvolgere emotivamente, per poi pentirmi di aver rinunciato ad assaporare momenti emozionanti.
Per lungo tempo il cinema ha attinto dalla letteratura. Adesso accade sempre più spesso il contrario, soprattutto in termini di linguaggio: la divisione in scene per ottenere una cadenza più ritmata, il racconto in soggettiva per dare al lettore la visuale, sempre parziale, di ogni protagonista, la sospensione della vicenda nel momento clou per passare, con montaggio parallelo, a un'altra sottotrama, sono tutti elementi mutuati dal cinema e dalla tv. I romanzi diventano sceneggiature virtuali. E questo non significa, necessariamente, svilire la letteratura, ma aggiornarla, presentarla in una forma più moderna, comprensibile a menti settate per comprendere un altro codice, senza costringerle a uno sforzo che otterrebbe il solo effetto di allontanarle dal prodotto letterario e consegnarle definitivamente a quello visivo. È letteratura d'evasione, forse - sebbene sia una definizione riduttiva per testi che rappresentano comunque un periodo e dinamiche storiche, costituendo quindi una fonte di insegnamento e di riflessione -, ma è infinitamente meglio dell'assenza di lettura. Bisogna cambiare pelle, per sopravvivere. Lo dimostra proprio la storia dell'impero romano, il più longevo della storia, con i suoi due millenni di vita, grazie alle sue trasformazioni da monarchia a repubblica, da impero romano a impero bizantino, da compagine etnica a multietnica.
La linea da seguire in questo campo, più di ogni altro, l'ha tracciata Ken Follett, con il suo I pilastri della Terra, dove non manca nessuno degli elementi citati. Ma è una lezione che hanno appreso anche autori come Ildefonso Falcones, in grado di adottare un altro linguaggio rispetto alla generazione precedente, rappresentata da Colleen McCullough, Bernard Cornwell e Steven Pressfield, e radicalmente opposto ai romanzieri del passato, da Mika Waltari a Gary Jennings, da Hella S. Haasse a Edward Bulwer-Lytton e Robert Graves. In Italia, si possono considerare fondamentali i lavori di Valerio Massimo Manfredi e, nelle sue sporadiche incursioni nel romanzo storico, Alan. D. Altieri, soprattutto con la sua trilogia Magdeburg.
I loro sono romanzi storici, ma sono anche thriller, quindi preferisco definire questo genere di letteratura «thriller di ambientazione storica», per differenziarla dal romanzo storico tout court - alla Guerra e pace per intenderci - che nel terzo millennio è diventato una lettura più ostica che mai.Il romanzo storico è morto, viva il romanzo storico... o d'ambientazione storica.
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