Luigi Iannone
Gianfranco Miglio, teorico autentico, viene regolarmente celebrato dai media come l'ideologo della Lega nord, anteponendo e quindi circoscrivendo all'avventura politica una pubblicistica enorme e di altissimo profilo. Una disattenzione, per certi aspetti, anche comprensibile visto che il rapporto con Bossi segnò una fase intensa della sua vita e gli diede notorietà presso il grande pubblico. Quella popolarità, frutto di numerose apparizioni televisive, lo costrinse tuttavia ad irrigidire oltremisura una immagine di indisponente e scorbutico consigliere del Principe, di cinico e spregiudicato Nosferatu (così come lo bollarono alcuni detrattori), col rischio di veder svilire e mettere in sordina la caratura internazionale dello studioso, una carriera accademica di assoluto prestigio e scritti che rimangono ancora oggi come imprescindibili punti di riflessione.
Il lavoro di Miglio ha infatti una serie di meriti. Su tutti, l'aver messo in campo ogni strumento culturale e accademico affinché fosse riconosciuta autonomia alla categoria della Politica. Muovendo da Carl Schmitt, tentò un percorso di diversione e di superamento di cui si chiarisce ogni singolo passaggio in un bel volume collettaneo dal titolo La politica pura. Il laboratorio di Gianfranco Miglio (Vita e Pensiero, pagg 336, euro 28) curato da Damiano Palano e col contributo di nomi importanti della politologia contemporanea (Marco Bassani, Massimo Cacciari, Alessandro Campi, Paolo Colombo, Giuseppe Duso, Carlo Galli, Leonida Miglio, Lorenzo Ornaghi, Vittorio Emanuele Parsi, Pierangelo Schiera e Mario Tronti). Un testo che riconverte in maniera organica tutti gli snodi, le articolate sollecitazioni e le ambivalenze, ma che prova a presentire le eventuali direzioni di marcia che avrebbe potuto prendere il lavoro di ricerca, visti i tanti appunti e materiali sparsi che nell'ultima fase della sua vita iniziavano a volgere un occhio più interessato ai nuovi processi globali.
Perché Miglio è stato un «moderno classico» mai rinchiusosi in una torre eburnea. Sono note sia la sua iniziale militanza nella Democrazia cristiana che i fondamentali studi sui giuristi cattolici, ma fu la battaglia campale per il riconoscimento di «scienze politiche» nell'ordinamento accademico italiano a svelare i suoi propositi. Quella vittoria fu solo un preambolo di ordine pratico in vista della contesa culturale più importante della sua vita: l'approdo coerente e tiglioso verso la «teoria pura» della politica la quale è essenzialmente «lotta per il dominio dell'uomo sull'uomo» e «lotta contro un nemico». Una «politica pura» che è avulsa dai luoghi comuni, dalle convinzioni ideologiche e dalle passioni, con l'intento di afferrare la radice più intima delle relazioni di potere: «Io associo abitualmente l'analisi scientifica dei comportamenti politici, ad un interiore distacco e parlo di fredda obiettività, al limite: di disincantata non partecipazione». In questo modo fissando parametri prestabiliti per arrivare al riconoscimento di un'autonomia per la categoria della Politica.
Fece tutto ciò percorrendo sentieri anche inesplorati, elaborando talvolta ipotesi eterodosse e destreggiandosi tra il diritto internazionale e la storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. E poi avendo come compagni di viaggio maestri quali Tönnies, Weber, Mosca, Pareto, e tutti gli esponenti della tradizione del realismo politico perché quello, in fondo, fu il principale percorso «perseguito al di sopra di ogni umano rispetto e senza indulgenze per le altrui speranze». Con la solita e ricorrente ambizione di «unificare in un quadro organico le regolarità individuate da pensatori del passato» e delineare «i contorni di una teoria capace di unificare in un solo e comprensivo sistema tutte le grandi regolarità della politica». E sempre in modo tale che la «purezza» non alludesse a «qualche limpidezza morale» ma al fatto che si dovesse cogliere la radice più profonda e ineliminabile delle relazioni di potere.
Concentrò infatti le sue analisi sulla regolarità e la specificità dei fenomeni politici, mentre respinse «il ricorso a elementi tratti da altri ambiti della convivenza associata» tentando di isolare la logica dell'homo politicus da quella dell'homo oeconomicus o dell'homo religiosus. Eppure, un rischio c'era.
E lo intuì quando con la caduta del Muro e il dispiegamento della globalizzazione nuove categorie sembrarono minare l'autonomia della Politica e le sue analisi non fecero in tempo a tener pienamente conto di uno scenario che mutava sin dalle fondamenta.
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