La salita all'Olimpo della poetessa Glück con il premio Nobel

Il massimo riconoscimento letterario va alla scrittrice statunitense (adorata dalla critica, sconosciuta dal grande pubblico) nutrita di miti greci e Dante

La salita all'Olimpo della poetessa Glück con il premio Nobel

Per un premio che ha per criterio primo la convenienza il che è un paradosso, visto che la grande letteratura convive con il fatto di essere sconveniente poteva andare peggio. Louise Glück è donna, è americana ma da famiglia di ebrei ungheresi , è di New York, è una grande poetessa. Nata nel 1943, il premio, adornato da una didascalia imbarazzante, buona a imbonire il redattore delle frasi dei Baci Perugina («Per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l'esistenza individuale»), è un alloro alla «carriera» lirica. Stellare. Esordio precoce nel 1968 con Firstborn e cursus honorum impeccabile: il Guggenheim for Creative Arts nel 1975, il National Book Critics Circle Award nel 1985 (per The Triumph of Achilles), il Pulitzer nel 1993 (per The Wild Iris), il Bollingen per l'opera omnia (onore capitato a Wallace Stevens e W.H. Auden, Delmore Schwartz, John Ashbery e Mark Strand, tra gli altri) nel 2001. La consacrazione definitiva accade nel 2003, quando è eletta, per il biennio di competenza, «Poeta Laureato» degli Stati Uniti (prima di lei, in quell'empireo, poeti come Robert Lowell, Robert Frost, Iosif Brodskij).

Il numero di premi e di onori lascia intendere quanto, in quel lato di mondo, sia presa in considerazione la poesia. Ma questo, ora, non importa. Non importa neanche che, a onor del gusto e del giusto, il Nobel, tra i campioni d'America, sarebbe dovuto andare a Charles Wright, oppure agli emeriti dimenticati, consueti, Cormac McCarthy e Thomas Pynchon.

Le statistiche, in campo letterario (per la cronaca: 15 Nobel per la letteratura alla Francia, 12 agli Stati Uniti, 11 a UK), sono cretine: non si parla di atletica ma di lignaggio del linguaggio. Beh, per gli accademici di Svezia, allora, la letteratura è occidentale l'ultimo Nobel fuori dai confini è andato al cinese Mo Yan, nel 2011, altrimenti bisogna risalire al giapponese Kenzaburo Oe, nel 1994 e parla inglese (dal 2013 per quattro volte). Resta, piuttosto, un dato sconcertante: il Nobel, piegato a bieche questioni geopolitiche, piagato dalle circostanze di mercato più che di merito, si dimentica dei poeti. L'ultimo poeta premiato prima di Louise Glück è stato l'Orfeo svedese Tomas Tranströmer: nelle ultime quaranta edizioni del Nobel, i poeti sono stati premiati otto volte. Ci credo. Non muovono l'economia editoriale planetaria, sono mossi soltanto dal proprio talento, i poeti, con infallibile follia.

In effetti, Louise Glück, pluripremiata, eccezionalmente nota e tradotta, piuttosto anziana, in Italia è una perfetta sconosciuta. Uno dei suoi libri più importanti, L'iris selvatico, è stato pubblicato dall'editore Giano nel 2003, ma è «attualmente non disponibile»; l'anno scorso Dante&Descartes ha pubblicato Averno (beato chi lo trova): entrambi i testi sono editi per merito del rabdomantico Massimo Bacigalupo, straordinario interprete di Ezra Pound e di Wallace Stevens, tra i poeti che gli sono più congeniali. In un servizio pubblicato sulla rivista Poesia di Crocetti qualche mese fa, in marzo, Bacigalupo scriveva, «Forse solo in America potrebbe esserci una parola così pura, non sentimentale, assoluta, risoluta».

L'ultima raccolta di Louise Glück, Faithful and Virtuos Night, è stata pubblicata nel 2014 da Farrar, Strauss and Giroux e ha conquistato un National Book Award. Pubblica poco, Louise. Un libro ogni tre o cinque anni. Ama raffinare i versi affinché chi li legga sanguini; a volte la sua ironia è ispida, altre volte ci impone di danzare coi morti («Mi addolora pensare/ che i morti non le vedranno / queste cose su cui facciamo affidamento,/ esse svaniscono.// Allora cosa farà l'anima per rinfrancarsi?»). Spesso recupera figure dell'estrema classicità, dallo splendore corrusco, acheo: in Averno c'è Persefone, ad esempio («Il sole sembra, nell'acqua, molto vicino./ È mio zio che di nuovo mi spia, pensa lei»). La pratica non è nuova in ambito americano: penso a Anne Carson, a Susan Stewart, a Eleanor Wilner. Quasi che queste poetesse/Baccanti volessero ricacciare il West nell'ombelico di Delfi.

L'antologia, Poems 1962-2012, è stata dichiarata come «il maggior evento letterario degli ultimi anni»; l'ultimo libro della Glück, American Originality, è una raccolta di saggi sulla poesia. In uno di questi, la poetessa sbriciola il mito americano, costruito sull'idea dell'«indipendenza individuale, cioè sul fatto che ciascuno possa raggiungere la preminenza sociale, la ricchezza, la gloria, come attributo determinante della democrazia». In un'intervista di alcuni anni fa, parlando de L'Iris selvatico, ha detto che non le importa incunearsi in Dio. «Lo fanno in troppi. Io no. Dio mi pare una scorciatoia per rispondere a ciò che non è incluso nell'umano, nel naturale. Qualcosa è stato tralasciato, credo, piuttosto. Una voce impaziente, spesso delusa, di tanto in tanto tenera, a tratti di esausta tenerezza».

Ingurgitando l'Undici Settembre, la Glück esce nel 2004 con un poema, October, in cui il dolore, distillato in distici, finisce per essere cura. Immagini terree, bibliche («Non era terminata la notte, non era salva/ la terra quando abbiamo sterrato// non abbiamo piantato i semi/ non eravamo necessari alla terra// la vigna è stata sarchiata?») si alternano a epigrammi laceranti («Non fa bene/ essere buoni con se stessi/ la violenza ti muta»; «la morte non può colpirmi/ più forte di quanto ha colpito/ la mia amata vita»), a paesaggi potenti, essenziali («Le colline basse brillano/ ocra e fuoco nei campi./ So cosa vedo: potrebbe essere/ il sole d'agosto, torna/ tutto ciò che abbiamo perso»).

Al paggio svedese che le ha telefonato, Louise Glück ha detto che con i soldi del Nobel vuole comprarsi una casa nel Vermont, che le dà fastidio il telefono che squilla di continuo, «voglio proteggere la mia vita quotidiana». Ha consigliato di leggere Averno, forse suggerendo che per il poeta, per l'uomo, la discesa agli inferi è necessaria.

«Fallire porta con sé una speranza: hai spazio per te stesso, per investigare il tuo genio», ha scritto, anni fa. Dovrebbero assegnarlo soltanto ai poeti, il Nobel: ti portano l'Orsa Maggiore in sala da pranzo, l'Olimpo nella tasca dei jeans.

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