«Tra Scala e Berliner i miei sessant'anni da direttore ragazzino»

«Tra Scala e Berliner i miei sessant'anni da direttore ragazzino»

Il direttore d'orchestra Riccardo Chailly, 60 quest'oggi, rappresenta il meglio dell'Italia che viaggia nel mondo. Da 8 anni è a Lipsia, al timone dell'Orchestra più antica d'Europa, quella del Gewandhaus. Prima fu 16 anni ad Amsterdam, 9 a Berlino, ma pure a Bologna e Milano. Ovunque è stato un affabile rivoluzionario, innovatore della routine discografica e di programmi. Sue incisioni, pur classiche, sono entrate nella classifica pop, compreso l'ultimo cd Decca, Viva Verdi, che ha riportato l'Orchestra Filarmonica della Scala alla ribalta dopo 12 anni di silenzio discografico. Chailly si trova così bene a Lipsia, bottega di musica dove vissero Bach, Mendelssohn, Schumann e Wagner, che pensa di rinnovare il contratto in scadenza nel 2015. Ma è il candidato eccellente del 2013. In Germania lo si dà fra i possibili successori a Sir Simon Rattle, alla guida dei leggendari Berliner Philharmoniker. Stesse ipotesi alla Scala dove condivide con Daniele Gatti la palma di successore eccellente a Daniel Barenboim.
Intriganti queste candidature.
«Le nomine non sempre vengono fatte sulla base di circolazioni di nomi, sono il frutto di una convinzione collettiva. Conta l'opinione dell'orchestra e del teatro. Non credo nel chiacchiericcio».
Che investe anche il sovrintendente scaligero. I favoriti del dopo Lissner (a Parigi dal 2015) sono austriaci e tedeschi, ma c'è chi reclama italianità. Lei che dice?
«L'italianità alla Scala vuol dire rispetto della tradizione musicale del nostro Paese, è un teatro che è il riflesso naturale degli Italiani, e chiunque deve tener conto di questo».
Oggi festeggia un compleanno importante.
«Non ho simpatia per questo numero. Non festeggio, farò un brindisi con l'orchestra del Gewandhaus, fra una prova e l'altra dei concerti a Lipsia e al Musikverein di Vienna».
Del resto lei è sempre stato il più giovane, debuttò a 13 anni.
«Questo mi ha un po' viziato. Non mi resta che adattarmi alla nuova vita».
Le carriere precoci impongono rinunce. Quali hanno pesato?
«Non ho mai sentito il peso del sacrificio. Ero un bambino allegro, e rinunciavo con gioia a giocare a pallone, benché mi piacesse. La musica mi ha sempre dato una soddisfazione immensa. Anche ora studio con la stessa intensità di quando ero ragazzo, però aumentano i dubbi».
Un libro sulla Filarmonica della Scala, edito in questi giorni, cita vuoi direttori senza ricorre al termine Maestro. Finalmente: si svecchia.
«Vero, farsi identificare con un titolo crea distanza con la gente. Ottima soluzione».
Al Festival di Sanremo sono intervenuti due artisti di classica. Anche questo riduce le distanze fra pubblico e musica d'arte?
«Ogni canale che diffonda la musica classica non può che far bene».
A proposito di abbattimento di steccati fra generi. Tornerà a lavorare con Bollani?
«In aprile, sarò ad Amsterdam dopo 10 anni di assenza, per un paio di settimane di ospitalità, e ci sarà anche lui».
In quei giorni, Beatrice, regina d'Olanda, lascia il trono.
«Dirigerò il giorno prima della cerimonia di abdicazione, alla presenza della regina, e con Bollani al pianoforte. Si elimineranno i posti a sedere, vogliamo il pubblico in piedi come a un concerto pop».
È felice sul podio?
«No. Dirigere richiede un grandissimo impegno mentale, ti pone in constante conflitto con te stesso perché il dubbio è sempre presente. Quando devo dare l'ok ai discografici, avverto il freno di un'autocritica che rasenta l'autodistruzione. Quando sono sul podio mi impongo di farmi prendere dall'entusiasmo, mi sforzo di salvare il ragazzo che è in me. E l'entusiasmo che sprigiono è autentico, ma una volta a casa sono spietato con me stesso».
Col senno di poi, tornerebbe a fare il direttore?
«Da ragazzo, mi dicevano che avevo talento per il pianoforte e la composizione, ma io volevo fare il direttore per poter dominare il suono di un'orchestra sinfonica. È la mia passione».
Quanto istinto e quanta scuola c'è dietro a un gesto direttoriale.


«C'è un mistero dietro alla gestualità del direttore. A scuola si studia una tecnica, ma poi la gestualità è dettata anche dalla struttura delle ossa del braccio, della muscolatura e dalla forza del viso: la forza degli occhi supera spesso quella delle braccia».

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