Erotomane confesso. Di ispanica ascendenza. Quindi noi non diremo che il regista Juan Josè Bigas Luna morto ieri a 67 anni, dopo aver a lungo lottato contro un cancro, vicino a Tarragona in Catalogna dove aveva creato insieme a sua moglie un'impresa di prodotti biologici, è il Tinto Brass spagnolo. Perché la sua poetica peculiare ha molto a che vedere, intimamente, con la cultura del suo paese. Certamente però, come il regista italiano, la sua ossessione lo ha portato a scoprire talenti, soprattutto bellezze femminili come Penélope Cruz, Ariadna Gil, ultimamente Verónica Echegui ma anche come Javier Bardem e Jordi Mollà. Oltre ad aver fatto conoscere internazionalmente le nostre Francesca Neri in Le età di Lulù e, con meno grazia, Valeria Marini a cavallo di una mortadella in Bambola che, a proposito di paragoni, s'ispira al cinema di Fellini e Ferreri e ai loro eccessi carnali. A questo proposito proprio la Filmoteca catalana, quando lo scorso anno ha organizzato la retrospettiva completa dei suoi film, ne ha proiettato alcuni accostandoli ad altri italiani in maniera piuttosto sorprendentemente: La teta y la luna e Amarcord di Federico Fellini, Uova d'oro e Le mani sulla città di Francesco Rosi.
Gli inizi di Bigas Luna lo vedono studente di architettura che però abbandona per avvicinarsi, attraverso la pubblicità e il suo lavoro come fotografo professionista, al mondo del cinema. Dove a metà degli anni '70, quando la Spagna stava iniziando a lasciarsi alle spalle l'era franchista, gira i primi cortometraggi diversamente erotici come quello in cui una signora si asciuga i capelli con il phon prima di scoprirne altri utilizzi. Debutta nel 1976 con il lungometraggio Tatuaje, adattamento del romanzo di Manuel Vázquez Montalbán, a cui seguono il sorprendente La chiamavano Bilbao selezionata al festival di Cannes che racconta l'ossessione di uno psicopatico per una prostituta (prima di Legami di Almodovar) negli ambienti sordidi del «barrio chino» di Barcellona. Qualche anno dopo porta al cinema Reborn con protagonista Dennis Hopper, si appropria del mito di Nabokov con Lola e del voyeurismo con Angoscia, altra storia di un'ossessione tra Zelda Rubinstein (la medium di Poltergeist) e suo figlio, un oftalmologo collezionista di occhi.
Nel 1990, dopo essersi dedicato per alcuni anni alla pittura, con Le età di Lulù, tratto dall'omonimo libro di Almudena Grandes, spoglia Francesca Neri e approda al successo internazionale che gli consente di arrivare due anni dopo con Prosciutto, prosciutto al festival di Venezia vincendo il Leone d'Argento e il premio della regia anche grazie all'interessante cast con Javier Bardem, Penélope Cruz, Stefania Sandrelli e Anna Galiena. È l'inizio della trilogia su certe icone iberiche - in Prosciutto, prosciutto i cartelloni pubblicitari con i mastodontici tori pubblicitari un tempo consueto panorama delle pianure spagnole - che prosegue con Uova d'oro e La teta y la luna molto legato alla tradizione del mondo dei casteller (le cinematografiche piramidi umane delle feste catalane).
Nel 1996 arriva con Bambola la cocente delusione, sua e di Valeria Marini esordiente al cinema, della proiezione al festival di Venezia con la sala venuta giù di fronte a certe improbabili sequenze di violenza nei confronti della nostra attrice che all'epoca si difese così: «Sono stata ingenua, era la mia prima esperienza. Che dovevo fare? Quando mi sono rifiutata di doppiare le scene erotiche, Bigas ha utilizzato il sonoro delle scene in cui corro». Dopo questa parentesi goliardico-culinaria Bigas Luna torna ad affidarsi al più sicuro adattamento di opere letterarie come quelle di Didier Decoin con La camarera del Titanic, Antonio Larreta con Volavérunt, Manuel Vicent con Son de mar.
Artista profondamente libero, Bigas Luna ha ultimamente spiazzato tutti quando si è espresso contro i nuovi provvedimenti catalani per l'abolizione delle corride: «Amo gli animali.
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