Quante volte vi è capitato con il vostro cane o gatto di sentirvi totalmente compresi, magari più che da vostra moglie o vostro marito? E di ritrovarvi a pensare che gli manca la parola, quando qualcuno vi direbbe che ok, non hanno una autocoscienza, magari perché non pensano. Ma siamo sicuri? È in libreria un saggio tanto scientificamente impeccabile quanto coraggioso, cioè il nuovo libro di Giorgio Vallortigara, tra i più illustri neuroscienziati mondiali, intitolato Pensieri della mosca dalla testa storta, edito da Adelphi (titolo strepitoso e anche letterario, non stupisce da uno scienziato che introduce i capitoli citando Borges, Dickinson, Montale, Boccaccio, fino a Dan Brown).
Coraggioso perché non solo vi spiega a che punto è la situazione riguardo agli studi sulla coscienza, ma si spinge a avanzare una sua ipotesi tra le più interessanti e affascinanti. Anche perché non si ferma, come fanno molti suoi colleghi, a specie a noi molto vicine, come le altre grandi scimmie antropomorfe (ricordo ai lettori che le grandi scimmie antropomorfe sono cinque: orango, scimpanzé, gorilla, bonobo e... uomo, e che dunque è sbagliato dire che l'uomo discende dalla scimmia), ma va avanti e indietro nel tempo e nelle specie per scoprire da quale meccanismo biologico è nata ciò che chiamiamo «esperienza», perché va da sé che senza esperienza non si sente niente, e dunque tanto meno ci potrà essere un pensiero. «Le condizioni minime per la comparsa nel mondo di creature che del mondo hanno esperienza possono essere stabilite solo ritornando agli albori delle menti, ai primi sistemi nervosi che hanno abitato il pianeta». Avete capito bene, Vallortigara, come uno Sherlock Holmes di tutti i cervelli mai esistiti (perfino prima che fossero cervelli), si spinge fino a molte centinaia di milioni di anni fa, ma è soprattutto interessato ai minicervelli, per esempio a quelli degli insetti.
In generale siamo portati a snobbare i minicervelli, sebbene restiamo sempre affascinati osservando la perfetta organizzazione sociale di un formicaio (ancora più strabiliati se lo compariamo al nostro Parlamento). Ma gli esperimenti che ci riporta Vallortigara vanno oltre le aspettative. Pensate alle api: un'ape possiede novecentosessantamila neuroni, molto pochi rispetto a noi, che ne abbiamo quasi cento miliardi. Eppure le api, opportunamente addestrate, riescono a distinguere non solo un Monet da un Picasso, ma successivamente a riconoscere gli stili e riconoscere un qualsiasi dipinto di Monet da uno di Picasso mai visti prima. Sarà per questo che Vittorio Sgarbi insulta qualcuno urlandogli capra e non ape, sebbene «le pecore, è stato provato, possono imparare a riconoscere cinquanta facce individuali di loro compagne e ricordarle a due anni di distanza», mentre «le galline ricordano centinaia di facce di esseri umani oltre di altre galline» quando io ne riconosco molte meno di facce (forse perché molte non voglio riconoscerle, non so, e quanto alle galline mi sembrano tutte uguali). Un punto importante del ragionamento di Vallortigara, estremamente documentato da studi, è che non conti la grandezza del cervello. Sfatando anche molti miti: i delfini, sempre definiti intelligentissimi perché hanno un grande cervello, in realtà non hanno poi questo gran numero proporzionale di neuroni, ma un numero sproporzionato di cellule gliari che garantiscono al cervello un migliore controllo termico. In pratica il cervello dei delfini è un termos per resistere alle basse temperature. D'altra parte sono rimasto stupito nell'apprendere che l'80% dei neuroni posseduti da noi essere umani risieda nel cervelletto. Avete capito bene, l'80%.
Tuttavia il cervello umano è un organo con un numero di neuroni esagerato rispetto a quanti ne servirebbero (oltre che molto costoso in termini metabolici, ogni giorno consuma il 20% delle vostre energie, e a prescindere, sia che voi siate Einstein, sia che voi siate Di Maio). Ma il problema della coscienza, dell'autocoscienza, per Vallortigara non sta nella complessità del cervello, tradotto in termini informatici non nella potenza della CPU ma della RAM. In sintesi Vallortigara, con un'analisi comparata tra le varie specie, sostiene «la tesi abbastanza estrema che le forme basilari della vita mentale non necessitino di grandi cervelli, e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali sia probabilmente al servizio dei magazzini di memoria, non dei processi del pensiero o della coscienza». Se leggerete questo libro, oltre a divertivi nel seguire svariati esperimenti con pulcini, api, formicaleone e mosche (e a scoprire chi è la mosca dalla testa storta, non vi spoilero), sarete persuasi che molto probabilmente ha ragione.
Io sono pronto a scommettere che, una volta
verificata la sua ipotesi, il professore prenderà il Nobel. Il cui premio in denaro dovrà dividere con me perché ci ho scommesso, e anche dovesse essere tra dieci anni gli restano comunque sufficienti neuroni per ricordarselo.
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