Ogni tanto in alcuni giornali, quando si sentono certi fatti, quando si vedono certi politici, si dice «Ci vorrebbe un Guareschi per raccontarli». In tutti gli altri si continua a dire: «Guareschi? Un fascista».
È da quando era vivo, e poi soprattutto dopo morto, nel 1968, che si liquida Giovannino Guareschi come fascista. Peggio: fassista. «La verità invece la sa chi lo conosceva bene. E cioè che non era né fascista, né democristiano, né comunista. Era Guareschi, che andava a letto con una luna, si svegliava con un'altra, e in mezzo scriveva quello che voleva, e basta», racconta uno che lo conosceva bene davvero: Beppe Gualazzini, 78 anni, per una vita inviato del Giornale di Montanelli e che oggi vive a Genova - «per affari sentimentali» - ma che è cresciuto nella Bassa. I Guareschi erano di Fontanelle, al di là del Taro, la famiglia di Gualazzini di Sissa, al di qua del fiume, a una distanza - all'epoca - di 100 lire: il costo di una tratta di barchino. Stessa terra, stessa gente. «Coi Guareschi eravamo anche mezzo imparentati... Comunque quando avevo 25 anni, mentre insegnavo e non facevo ancora il giornalista a tempo pieno, portavo le scolaresche a Roncole, dove c'è casa Verdi e lui aveva il ristorante, e lo vedevo seduto davanti al camino con la moglie Ennia, donna esplosiva, straordinaria... Divenni amico dei figli. Carlotta e Alberto. Leggevo le sue cose, lo seguivo, volevo scrivere come lui...».
E alla fine Beppe Gualazzini scrisse su di lui. Una biografia che uscì nel 1981 per la Editoriale Nuova, che era la casa editrice del Giornale, e poi, anni dopo, riveduta e corretta, fu ripubblicata da DeAgostini, e oggi, riveduta, corretta e ampliata, a 40 anni dalla prima edizione, esce per Luni: Il furente Giovannino. Eccolo il libro che, in qualche modo, ha fatto da spartiacque fra la sfortuna e la fortuna di Giovannino Guareschi, scrittore scomodo e unico, detestato dalla critica e amato dai lettori. In Italia càpita che i due mondi non vadano d'accordo.
«Capitò che sei anni dopo la morte di Guareschi firmai sul Giornale, che era appena stato fondato, nel '74, un pezzo per ricordarlo. Apriti cielo. Un giornale che rimpiange quel fascista di Guareschi non può essere che fascista, scrisse Lamberto Sechi, intellettuale della peggior sinistra italiana, al quale Montanelli rispose come solo lui sapeva fare: Guareschi, due anni di lager nazisti per non avere accettato di aderire a Salò, 400 giorni di durissimo carcere italiano per non abiurare alle sue battaglie per la vera democrazia, è solo e sempre Guareschi, se stesso, mai portato il cervello a nessun ammasso. Chi passa accanto alla sua tomba sa chi c'è sotto, cosa ha fatto, cosa gli hanno fatto, ma passando accanto a Sechi, cosa mai potrà dire, cosa, mio Dio?».
Del resto il giorno dopo la morte di Guareschi l'Unità uscì col titolo «Morto lo scrittore che non è mai nato». E i suoi funerali furono disertati dalla politica e dalla cultura: c'erano solo Angelo Tonna, il sindaco socialista di Fontanelle, il direttore della Gazzetta di Parma Baldassarre Molossi, Giovanni Mosca, Carlo Manzoni, Nino Nutrizio, Enzo Biagi e Enzo Ferrari. Non c'era niente da fare. Guareschi era un reazionario, un fascista, un impresentabile. E così su di lui scese il silenzio. La critica lo ignorava. I film su don Camillo si proiettavano nelle parrocchie. Il suo nome dimenticato.
Ecco: la biografia di Gualazzini - leggibilissima, come erano stati la narrativa e il giornalismo di Guareschi - aprì uno spiraglio nel muro dell'oblio. E piano piano, grazie allo straordinario lavoro dei figli Alberto e Carlotta, Giovannino risorse. A morire, lentamente, in realtà aveva iniziato dopo l'affaire De Gasperi, quando finì nel carcere di Parma per 409 giorni, fra il 1954 e il '55. «Lo chiusero in una cella di due metri per tre. Ci entrò baldanzoso, pensando forse che la prigione potesse essere un'altra medaglia. Era convinto che rispetto ai due anni passati nei lager tedeschi in Polonia e poi in Germania, dopo l'8 settembre del '43, fosse una passeggiata. E invece. Là come compagni di cella aveva militari, Giuseppe Novello, Roberto Rebora, il filosofo Enzo Paci... poteva scrivere, pensare, fare un giornaletto clandestino... Qui era con i criminali comuni. Per uno come lui, che lavorava come un matto, tutto il giorno, fu un colpo da cui non si riprese. Quando uscì iniziò a mangiare fette di culatello spesse tre dita e bere più whisky che Lambrusco. Gli ultimi anni furono tristissimi. Lo avevano piegato. A Enzo Biagi, che gli era stato molto vicino, disse: Non credevo che le carceri italiane potessero essere più crudeli di quelle naziste». Morì di malinconia, di delusione, di rabbia. Non di cinismo.
Finita la sua avventura terrena di scrittore, giornalista, disegnatore e umorista (straordinario: basta andare a rivedere le sue vignette politiche), continuò il pregiudizio. E sì che non era stato per nulla fascista, solo convintamente anticomunista. Ma bastò. Magari chi frequentava le sezioni del Pci andava anche a vedere Don Camillo e si divertiva, ma le gerarchie del Partito lo vedevano come il fumo degli occhi. Il suo non era un nome né dignitoso né gradito. «E invece a Guareschi non fregava niente né della destra né della sinistra né del centro. Non sopportava i politici in generale, combatteva tutte le dittature, e anche tra i Savoia, pur proclamandosi monarchico, non vedeva alcuna figura autorevole». Passò l'idea dell'uomo di destra, del contadino rabbioso e poco acculturato, dello scrittore per palati facili. Per dire: Giorgio Bocca, ormai vecchio, una volta sollevò il problema del conformismo culturale italiano in un famoso botta e risposta su Repubblica con Beniamino Placido, chiedendosi il perché del silenzio riservato dagli intellettuali a due scrittori di successo ma non di sinistra, Giovannino Guareschi e Gianna Preda. La sua conclusione fu: «Qui si tratta di mettersi una buona volta d'accordo su che cosa s'intende per intellettuale: se è uno che deve fare il suo esercizio sul trapezio e basta o se deve pensare con la sua testa e dire la verità».
Nel caso di Guareschi, che rifiutò sempre, ovunque e con chiunque, i guinzagli di certa cultura e di certa politica, mantenendo liberi anima e cervello, vale la seconda. E il tempo, alla fine, pagò.
Oggi, nemesi letteraria ed editoriale, è l'autore italiano più tradotto nel mondo, i titoli della saga di Don Camillo e Peppone sono longseller, mentre ancora ogni volta che un film della serie viene trasmesso in tv, fa il pieno di share. Perché? «Perché i suoi personaggi sono universali. Le sue storie divertenti. E soprattutto perché pensava in dialetto parmigiano, e poi traduceva in italiano.
E quello che veniva fuori era una lingua semplice, asciutta, senza fronzoli, con un vocabolario che conta sì e no duecento parole, le stesse che adopera ogni giorno la gente comune per comprendersi e sopravvivere in questa Torre di Babele dove sono stati inventati milioni di parole per cancellare i fatti. Basta?».Ce lo faremo bastare.
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