Se l'uomo è uno strumento che suona l'armonia divina

In un libro, il dialogo-capolavoro tra Cacciari e Muti sul rapporto tra note, immagine e spiritualità

Se l'uomo è uno strumento che suona l'armonia divina

Non so se Riccardo Muti e Massimo Cacciari volessero parlare di Dio dialogando sul rapporto tra musica e immagine, a partire da Masaccio e da Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce di Haydn. Ma Le sette parole di Cristo (Il Mulino) va molto oltre, e la presenza di Muti conduce alla fine a una domanda molto impegnativa: che cosa è la musica? Le sette ultime parole pronunciate da Cristo in croce si rispecchiano nella meravigliosa Crocifissione di Masaccio, con il suo accecante sfondo dorato, che Muti racconta di aver visto per la prima volta a Capodimonte restandone fulminato. Muti e Cacciari mostrano l'incontro tra Masaccio e Haydn, inevitabile perché entrambi hanno intrapreso un dialogo «umano divino».

Che cosa vuol dire? Semplicemente, Haydn ha disegnato in musica le sette frasi che definiscono Cristo nella sua dolcezza, disperazione, divinità: ha disegnato Dio nella sua umanità, illustrando il rapporto, appunto, tra umano e divino. Lo stesso fa Masaccio: la tragica umanità del corpo sofferente, insieme alla compostezza ferita a morte della madre, alla stupefatto e fatale dolore di Giovanni, e alla passione sensuale della Maddalena che, quasi per pudore, non vediamo in viso ma solo nel manto vermiglio teso dalle braccia disperate, lanciate verso l'alto ad abbracciare il corpo di Gesù... È una «somma» di colori che pensano tutto l'insieme della vicenda di Cristo, e il suo messaggio umano-divino. Come la musica di Haydn.

Cacciari spiega che l'icona e il suono sono, in sostanza, una sola cosa, che un quadro si ascolta, e una musica si vede, che è il pensiero stesso a suonare e dipingere dall'inizio dell'avventura umana. Muti si tuffa in questo pensiero, con fare insieme spirituale e concreto, e anche spiritoso (come è lui). Alla fine a me, che i suoi autori lo vogliano o no, è sembrato che il libro ci conduca sulla via difficile e incerta per cui con la musica si parla di Dio. E di che altro alla fine deve parlare il mistero? Quante volte gli esseri umani si sono chiesti dove è la sua essenza, la sua origine, la radice?

Cacciari da una buona indicazione che cerca di ricondurci a una filosofia del nostro tempo, umana. Vico docet, dice: l'uomo non nasce animale parlante, prima vi è il grido, il suono, poi il suono assume ritmo, misura, e giunge a farsi canto. E qui, dice Cacciari, nell'essere un'originaria, innata potenza, è il segreto della sua forza. Muti accetta il gioco, e in modo molto diretto, personale, e quindi intessuto di un'esperienza musicale sublime. Il Maestro, ci conduce alle soglie del mistero, e cerca di spiegarci l'inspiegabile.

La dimensione pittorica, che dall'astratto delle note ci fornisce lo spazio concreto dei colori e dell'immagine, aiuta sulla strada del significato, ma non basta. È un gioco difficile fra concretezza e sublimazione. Muti ha diretto le «ultime sette parole» con la Filarmonica di Vienna proprio sulla tomba di Haydn. E racconta come il luogo in cui si suona cambi il suono stesso, non certo perché descriva concretamente una situazione, ma perché esiste nell'uomo un mistero che ne fa un essere musicale, e lo spinge a concepirla come «combinazione matematicamente magica di inafferrabili suoni che mostra se stessa al servizio di nient'altro che del proprio Dio».

Chi ha visto dirigere il Maestro Muti (anche sul teleschermo) ha avuto modo di osservare, a bocca aperta nel mio caso, come la sua percezione «matematicamente magica» e la sua personale somma di tutti «i mondi possibili» (cito le sue spiegazioni) nella musica che dirige, gli indichino poi in maniera diretta, inequivocabile, l'interpretazione, una sola, una scelta su un milione. La scelta germina dalla fantasia e dal sentimento insieme all'analisi minuziosa, semantica e storica, di tutte le componenti della partitura: armonia, forma, contrappunto, dinamica. Ma alla fine, dopo tanta precisione, quando Muti si chiede se allora è sicuro di aver raggiunto il risultato, la risposta tende sempre all'infinito; dopo aver scelto tante spiegazioni concrete sul luogo, la gente, il suono, l'indicazione del compositore... alla fine però Muti è come l'uomo davanti a un cielo stellato, solo con il Tutto. E quando individua la sua strada, essa è un sentiero nel mistero rivelato.

Insomma, il suono ha una potenza infinita: l'Uomo vuole suonare-cantare, dice Cacciari: vorremmo suonare noi stessi, parlando. Il nostro corpo desidera suonare. Muti dice addirittura che è il migliore degli strumenti. Ed ecco che si riaffaccia Dio, quando Muti chiede: «E non pensi che proprio questa nostra disposizione ad avere una natura musicale dipenda dal fatto che esiste un'armonia dell'intero Universo? Non è l'Harmonia mundi che in noi si incarna?». Muti spiega che l'emozione che può derivare dalla musica appartiene anche al profano che non ne sa nulla. Insomma, Muti deve prendere la decisione su quale forma dare alla emozione, ma il rapimento che ne deriva vale per tutti, anche per l'incompetente. Muti insiste quando Cacciari gli indica la strada della norma che alla fine deve regolare l'emozione: il suono interiore è universale, «lo devono sentire anche gli animali e le piante».

Il mestiere di direttore d'orchestra dunque per Muti è un immenso insieme di conoscenza, percezione, e anche funzioni tecniche diverse da paese a paese, da lingua a lingua; per esempio, spiega, chi non sa il latino non sa che Verdi non mette l'accento nell'incipit del suo requiem su quella parola, appunto «requiem», che in genere viene sottolineata come un solitario, severo monito. Verdi ha scritto come incipit una frase intera di disperazione e preghiera che cambia tutto il tono della musica: «requiem eternam dona eis Domine». Insomma, chi dirige deve sapere esprimere quella disperata ma dolce richiesta di quiete, che cambia del tutto il sentimento. Anche la lingua dell'autore, aggiunge Muti, suggerisce universi diversi, Brahms e Verdi sono distanti quando parlano di morte o di vita. La parte filologica dell'interpretazione dunque è per Muti molto importante ma, ci dicono i dialoganti, quello che deve prevalere (se il direttore è bravo, Muti più volte butta in campo questo inevitabile fondamento) è la carica interna, cioè spirituale della musica.

E quando percorrendo le sette parole i due rimescolano le carte torna la stessa domanda: è spirituale la musica, è materiale? È come dice Cacciari materia sonora primordiale perché si trova di nuovo nella nostra origine nella notte dei tempi? Qui, e non è un caso secondo me, comincia la discussione su Gesù Cristo, ovvero sulla rappresentazione in forma umana della divinità, che non si vede, non si sente, non si tocca... ma c'è. Non a caso Cacciari cita all'inizio della disamina delle Sette parole il prologo di Muti alla sua direzione a Ravenna: «Vi troverete tutti con la vostra vita, le vostre paure, le vostre speranze tutti uniti in Cristo, cioè l'umanità di Cristo. È questa ciò che voi ascoltate». E da qui si snoda, nella contemplazione del quadro di Masaccio la citazione dal «Padre perdona loro» fino al «Padre nelle tue mani consegno il mio Spirito», dove «il chiaroscuro delle note trafigge la coscienza e la pone di fronte al mistero della Croce, dove l'umano e il divino cadono e risorgono insieme». Per Muti, in questa musica quintessenziale, perché profonda, scura di morte, brilla una luce, come nel quadro di Masaccio: «l'ascoltatore interrompe il pensiero per affidarsi al sentimento del divino che scopre dentro di sé».

Muti, con Cacciari, ci conduce nelle praterie della musica che placa, che difende, che abbraccia come quella della «serenità pacificata» della Creazione: «Della tua

bontà o Signore la terra e il cielo sono pieni». Un tonalità di do maggiore, e la musica (di nuovo, si può dire con un sorriso, se ben compresa, sezionata, ricomposta, pensata, sentita) ci accompagna dove si trova il mistero.

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