Piccolo, minuto, sfuggente eppure imponente come un genietto della lampada; «il mio genietto balordo» lo chiamava infatti Édith Piaf che lo scoprì e lo lanciò. «Il mio volto è il volto di chiunque», ribatteva lui con modestia, senza pensare che il mondo lo venerava come uno dei più grandi chansonnier della storia. Anche Charles Aznavour se n'è andato a 94 anni, dopo essere rientrato da una recente tournée in Giappone e dopo avere cancellato, nei mesi scorsi, alcuni concerti per ragioni di salute. Aveva già programmato una serie di concerti tra fine ottobre e dicembre, a Bruxelles e nei dintorni di Parigi. Era ancora in pista Chahnour Varinag Aznavourian, «cantautore, attore e diplomatico» francese di origine armena ma nato a Parigi il 22 maggio 1924. La sua voce non era nulla di particolare; ma era una voce dai toni giusti, colloquiali, evocativi e fatti apposta per colpire l'immaginazione e soprattutto il cuore di chi lo ascoltava, trasformandolo in un mito della canzone, e non solo francese. Basti pensare che, nel 2008, incise un album di duetti in cui fecero a gara per cantare con lui artisti del calibro di Sting, Céline Dion, Elton John, Laura Pausini. E come dimenticare quell'antico duetto con Mia Martini nella melanconica Dopo l'amore, che l'artista ha poi pudicamente abbandonato per anni per riprenderla nella tournée italiana dell'autunno 2009? Ha scritto più di mille canzoni, molte in italiano e molte altre, le più amate dal pubblico, sono state tradotte e reinterpretate da personaggi come Gino Paoli (versione italiana di Il faut savoir), Mina (Ed io tra di voi), Iva Zanicchi (che gli ha dedicato l'intero album Caro Aznavour) e persino Franco Battiato che ha ripreso anch'egli Ed io tra di voi nel disco Fleurs.
Uno dei suoi simboli è L'istrione (in pratica la sua autobiografia) che tra l'altro dice: «Io sono un istrione/ ma la genialità è nata insieme a me/ ... in una stanza di tre muri tengo il pubblico con me/ sull'orlo di un abisso scuro/ col mio frac e coi miei tic/ e la commedia brillerà/ del fuoco sacro acceso in me». Quando la eseguì in Italia, a 85 anni, al Regio di Parma, in tournée dalle nostre parti dopo 26 anni di assenza, dai palchi al loggione il pubblico era in pieno delirio. Celebre e apprezzato in tutto il mondo (famosi i suoi concerti alla Carnegie Hall di New York) Aznavour aveva un rapporto privilegiato con il nostro pubblico: Buon anniversario, Morire d'amore, Com'è triste Venezia, Devi sapere (versione italiana di Il faut savoir) sono alcuni dei suoi cavalli di battaglia, anche perché lui cantava in sette lingue (più il dialetto napoletano). «Professionalmente autori come Mogol, Bardotti, Calabrese hanno scritto grandi canzoni per me - amava dire - Amo cantare nella vostra lingua. Il mondo cambia; la moda, la cultura, le canzoni si rivolgono soprattutto ai giovani che hanno gusti sempre nuovi. Non conosco la nuova Italia musicale a parte la Pausini e l'amicizia con Massimo Ranieri. Però per fortuna in Italia ci sono cose che non cambiano mai, come il ristorante milanese che mi cucina pasta e fagioli come quarant'anni fa».
Eppure Aznavour non aveva bisogno di cambiare... Dal 1950, anno in cui conquista l'Olympia e il primo posto nella classifica dei dischi con Sur ma vie, mantiene e aggiorna il suo stile alla faccia di quelli che lo criticano per la voce, la dizione, il fisico. E ha avuto ragione lui, ispirato da Charles Trenet e amante delle ballate di Serge Lama nonché fan di Bob Dylan («Dylan una volta venne a sentirmi in teatro; ci siamo incontrati quarant'anni dopo e ci siamo abbracciati come due fratelli») ma sempre unico nel suo genere. Ambasciatore dell'Onu, dell'Unesco e dell'Armenia, era impegnato socialmente e sapeva cantare l'amore come pochi.
Il suo segreto? Lo ha confidato a noi quando disse: «Ho un repertorio molto vasto, so quando è il momento di sorridere e quando arriva quello per riflettere. Le canzoni d'amore non sono fatte solo per dire ti amo. Io ho scritto anche Vattene e ho cantato anche la cellulite. Non c'è limite nei brani d'amore perché l'amore non ha limiti».
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