Il secolo di Kirk Douglas: grinta, fisico e cuore infinito

Il grande attore compie oggi cent'anni di vita. Con i suoi film ha segnato l'epoca d'oro di Hollywood

Il secolo di Kirk Douglas: grinta, fisico e cuore infinito

"Puoi essere un tipo carino, o un figlio di puttana: non importa. Quello che conta è: ti fai sottomettere, o ti ribelli?", scrive Kirk Douglas, nato il 9 dicembre 1916, nell'ultima autobiografia I am Spartacus!, con prefazione di George Clooney. Arrivato a cent'anni, l'ultimo titano di Hollywood votato ai ruoli indocili ha scritto più d'un libro sulla sua straordinaria vita da star, vera antologia del cinema del XX secolo. Col suo compresso fisico da pugile (i detrattori lo definivano «Ercole con l'ernia»); la mascella fatta per incassare pugni, il profilo aquilino e quella voce ispida con dodici sfumature di nero, Kirk era cattivo e bello quando cominciò a farsi notare, nel 1946, al debutto con Barbara Stanwick nel melodrammatico Lo strano amore di Marta Ivers. Anni dopo, avrebbe rivelato che la diva, più anziana di lui all'epoca delle riprese, lo «aveva fatto diventare uomo». Le donne, celebri e anonime, non sono mancate nella sua lunga vita: Marlene Dietrich gli preparava la minestrina prima dell'amore, Joan Crawford si spogliava appena lui chiudeva la porta della villa di lei a Beverly Hills, mentre una hostess alta e bionda gli chiedeva di sculacciarla, quando lei gridava: «I'm nazi!».

E ricorre anche un altro anniversario per questa venerabile celebrità che ha lavorato con i migliori registi, Billy Wilder, Vincente Minnelli, Stanley Kubrick, Brian De Palma: sono 70 anni che Douglas senior resiste nel business del cinema mondiale. D'altronde, una carriera estesa dal '46 al 2008, iniziata con la Stanwick e tecnicamente finita con Rory Culkin (Vizio di famiglia, 2003), collega quattro generazioni. Resilienza eccellente per l'attore, sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, quand'era arruolato in Marina (è un veterano decorato), a un incidente in elicottero, un infarto nel 1996 e un'operazione alle ginocchia. E' sopravvissuto ai coetanei e, non a caso, nella sua notevole filmografia, Kirk Douglas si è perlopiù calato in ruoli da sopravvissuto. Ha la grinta del figlio d'uno straccivendolo ebreo russo (da qui, il titolo della sua più fortunata autobiografia The Ragman's Son), l' analfabeta Herschel Danielovitch, che a casa parlava yiddish. E che nel 1916 fu costretto dai pogrom bielorussi a emigrare da Belarus al sobborgo newyorchese di Amsterdam, da un ghetto all'altro, insomma.

Il vero nome dell'attore, fin da piccolo impegnato a sostenere economicamente le sue sei sorelle con vari lavoretti, è infatti Issur Danielovitch Demsky, cambiato in Izzy Demsky e, infine, in Kirk Douglas, sempre per sfuggire a possibili persecuzioni antisemite. Ma quando, finalmente, per Kirk sono arrivati fama e soldi, alla sua casa di produzione ha dato il nome della madre, Bryna.

Insuperabile come giornalista cinico in cerca di scoop ne L'asso nella manica (1951), diretto da Billy Wilder; commovente ne Il grande campione (1949), dov'è un boxeur dal passato burrascoso, ma pronto a rialzarsi; indimenticato nel suo film più noto, Spartacus (1960) di Stanley Kubrick, dove, da barbaro schiavo incita alla rivolta contro Roma, il padre di Michael ha sempre dato vita a personaggi che non mollano. «Vengo da un'abietta povertà: non c'era altro modo, per me, che andare in cima», ha detto in un'intervista del 1994. Un secolo di cinema epico, il suo, quando i divi, nell'Età d'Oro di Hollywood, erano re. E Kirk, 3 nominations agli Oscar come miglior attore, 2 Golden Globes e oltre 90 film in 7 decenni, s'è guadagnato lo statuto reale. Senza perdere un grammo d'ironia. Come quando, al suo precedente compleanno, tenne questo discorso: «Mi chiamo Kirk Douglas. Forse avete sentito parlare di me. Ero una stella del cinema. Sono il padre di Michael e suocero di Catherine Zeta-Jones».

In scena, Douglas fu piuttosto uno psicopatico fatto in casa, un John Wayne con un pizzico di nevrosi che tendeva all'Humphrey Bogart, senza essere un macho sexy quanto Robert Mitchum o l'uomo rassicurante e attraente alla Burt Lancaster, col quale girò sette film, il più famoso dei quali resta Sfida all'O.K. Corral (1957) di John Sturges. Non un tipo da matinée al cinema, dunque, ma il cowboy ruvido che torna a casa, il duro con un cuore, in fondo. Ci provò, Kirk, a tuffarsi anima e corpo nel tormentato personaggio di Van Gogh, girando Brama di vivere nel 1956, diretto da Vincente Minnelli.

Perfezionista e gran lavoratore, Douglas non era nato per interpretare Shakespeare, ma dure storie americane: la sua ferocia saturnina è ritratta nel film Trumbo di Jay Roach, dove Dean O'Gorman rifà il giovane Kirk, che si guarda bene dal seguire i dettami dell'Fbi, in materia di caccia al comunista durante il maccarthismo, ma insiste a volere, come sceneggiatore di Spartacus, Dalton Trumbo, autore sulla lista nera. Per un film, tra l'altro, che a Hollywood fu il primo a schierarsi contro McCarthy e l'atmosfera da lui creata intorno agli hollywoodiani. «La virtù non è fotogenica», ama ripetere. Però lui, il vecchio ragazzo ebreo di Brooklyn, da tempo esercita una grande virtù: la carità.

Donando milioni di dollari al Children's Hospital di Los Angeles oppure al Motion Picture & Television Fund, per aiutare gli attori poveri e malati, tramite la Douglas Foundation. Da ex-povero, che ha patito la fame, nel giorno del suo compleanno i regali li fa lui. Dove devo andare, tanto, non mi serve niente, quasi si giustifica.

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