«Ho concepito questo libro nel giorno stesso della morte di Prince, quando la notizia ha iniziato a fare il giro del mondo. Ho ripensato a quando, a tredici anni, avevo acquistato il disco 1999. Qualche perplessità c'era. Sapevo di non voler scrivere il classico libro sull'artista morto. Mi sarei sentito un avvoltoio, un profanatore di tombe. Era morto per un'overdose non voluta, dopo essere stato male per alcune settimane. In pochi sapevano della sua lotta per disintossicarsi dalle droghe, considerate le sue dichiarazioni pubbliche durissime contro le sostanze. Per una tragica ironia, a ucciderlo fu il fentanyl, lo stesso farmaco che ha ucciso Tom Petty».
C'è poco da profanare, considerato che Paisley Park, la residenza-studio di registrazione di Prince, è stata trasformata in un museo, con tanto di urna con le sue ceneri a forma di... Paisley Park. Purple Life (EDT, pagg. 320, euro 17; trad. Marco Bertoli) di Ben Greenman (che domani sarà ospite del festival La Grande Invasione di Ivrea e domenica invece al festival di Firenze La città dei lettori) è molto più della biografia di Prince, un musicista geniale quanto controverso. È la ricostruzione del suo universo umano e musicale e un'analisi critica della sua sterminata produzione: poco gossip e tanta sostanza.
La musica moderna è un costante percorso di prestiti e trasformazioni. Qual è il marchio di fabbrica di Prince?
«James Brown, Duke Ellington, George Clinton, The Beatles, Joni Mitchell, Little Richard, Todd Rundgren, Sly Stone, Jimi, Hendrix, Santana, Stevie Wonder, David Bowie... Potrei andare avanti a lungo con la lista. Prince sapeva sintetizzare il meglio di molti altri artisti. Adorava la musica pop/rock/funk per le possibilità creative che gli consentiva e pure per la sua teatralità, perché era un potente strumento di cambiamento sociale e di liberazione individuale sessuale e psicologica. Era al tempo stesso un solista virtuoso e un abilissimo band leader. Fece incontrare musica bianca e musica nera, fondendola in qualcosa di nuovo».
Prince usava le nuove tecnologie, ma con la canzone Clouds criticò pesantemente i social per come trasformano persone prive di qualità in star della rete...
«Considerava l'universo digitale una sorta di droga, una scappatoia malsana dalla forza più diretta e positiva di prodotti reali come LP, cassette, CD. Non era un purista e fece qualche tentativo con la distribuzione digitale delle sue opere, a partire da siti, videogiochi e mondi interattivi imperniati su di sé. Ma non era costante e cambiava spesso idea. Ne concepiva una e subito dopo la abbandonava».
Pare che Prince fosse molto consapevole del suo talento fin dall'inizio e molto organizzato. È vero?
«Sì, al punto che quando, a diciannove anni di età, ottenne un provino per la Warner Bros, non accettò che gli venissero accostati produttori di gran nome e insistette per fare a modo suo. Fu un momento fondamentale. Prince fin dagli esordi si dimostrò determinato e preparato. Con il tempo, la sua accresciuta autorevolezza spesso lo portò ad assumere atteggiamenti dittatoriali nei confronti dei suoi stessi musicisti, a cui talvolta non concedeva alcun credito per idee di loro concezione. Ma era pure generosissimo e capace di regalare canzoni ad altri artisti».
Purple Rain è stata realmente la canzone della vita per Prince?
«La vita di ogni musicista ruota intorno a una grande canzone. Purple Rain è stata un successo strepitoso perché è una ballata dal forte impatto emotivo, perché era adatta a chiudere un concerto, perché ha contribuito a fare di Prince ciò che il mondo ricorda di lui.
Ma ci sono pure altri brani come When doves cry o Let's go crazy e Kiss. Direi che, se ne dovessi sceglierne uno, opterei per Little Red Corvette, quello che lo ha fatto passare dall'essere un artista d'avanguardia amato dai critici a un dominatore delle classifiche».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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