Non è un'opera e neppure un musical. È cantata ma anche ballata. Sembra un oratorio, ma potrebbe trasformarsi in uno spettacolo. Si chiama «messa», ma assieme al latino parla anche ebraico, e al canto gregoriano mescola il pop, il rock, il blues. «E non basta aggiunge Damiano Michieletto -. In partitura è prevista perfino della musica registrata». Insomma: che diamine è questa Mass, che il 1 luglio debutterà alle Terme di Caracalla in Roma? Una cosa è certa: se c'è un regista ideale per venire a capo del rebus costituito da questo multiforme quanto inafferrabile lavoro, concepito nel 1963 da Leonard Bernstein, su commissione di Jacqueline Kennedy, e mai prima d'ora rappresentato scenicamente in Italia, è proprio il nostro inventore di teatro musicale più complesso, denso e sorprendente: Damiano Michieletto.
«Cos'è la Mass? si chiede il regista - Bernstein la definisce pezzo teatrale per cantanti, musicisti e ballerini. Doveva essere una messa tradizionale; poi il grande musicista scosso dall'assassinio di Robert Fitzgerald Kennedy e (si dice) dalla contestazione alla guerra nel Vietnam, alla liturgia latina aggiunse versi suoi, di Arthur Schwartz e Paul Simon, inserì danze e, secondo una moda di quegli anni, anche delle musiche registrate». Spettacolo anticonvenzionale per il più anticonvenzionale dei nostri registi lirici? «Beh, stavolta è stato Bernstein, ad inventarsi tutto». Almeno un vantaggio, però, l'insolito lavoro lo riserva: stavolta nessuno potrà accusare Michieletto d'essersi allontanato da una tradizione che in questo caso non esiste.
«La Mass fu molto criticata, venne letta ideologicamente, pare che il presidente Nixon abbia rifiutato di partecipare alla prima. Ma per me è stato stimolante, e naturalmente impegnativo, misurarsi con un lavoro che sfugge a qualsiasi etichetta, abbracciando generi molto distanti fra loro, secondo uno spirito multiculturale che è tipicamente americano». E obbligando ad un enorme sforzo produttivo: con i suoi ottanta orchestrali, ottanta coristi, venti voci bianche, venti solisti street singer e trenta ballerini, Mass porterà in scena ben duecentotrenta artisti. «Una magnifica opportunità riflette il regista - poter disporre di tante diverse forze all'interno di una sola realtà: il Teatro dell'Opera di Roma».
Finora rappresentata in Italia solo in forma di concerto, per il debutto dello stesso Michieletto a Caracalla, la liturgia di Mass non prevedede una vera e propria trama. «Solo una traccia, suggerita dalle didascalie».
Un Celebrante, interpretato da Markus Werba (mentre l'orchestra sarà diretta da Diego Matheuz) sta per officiare una Messa. Qualcosa glielo impedisce: entra in crisi, solo dopo grandi tormenti arriverà a proclamare «la Messa è finita, andate in pace».
«Ho cercato di dare una fisionomia teatrale a questo schema, essenziale ma dal chiaro messaggio ecumenico spiega Michieletto -. Il mondo è diviso: ha bisogno di Dio, e non lo trova. Per questo ho immaginato un muro che attraversa tutta la scena, attorniato da alte gru, ai cui lati siede il coro e sul quale scorrono immagini dei muri che dal Messico, alla Palestina, all'Ungheria - separano gli uomini. Ma anche simbolo di quei muri che noi stessi erigiamo dentro di noi». Durante una festa attorno ad un tavolo, che è anche altare, alcuni street singers cercano di dividere i partecipanti alla Messa, che è invece il rito per eccellenza della condivisione. «Deridono il Celebrante, lo crocifiggono: se davvero sei il Cristo
gridano - scendi dalla croce. Ma altri uomini attraverseranno il muro. Porteranno con sé del grano, mostreranno una luce lontana. il grano della vita. La luce della speranza. Forse della Resurrezione». Nelle sue regie, Michieletto allude spesso a temi cristiani, stavolta evidenti.
La domanda insomma è inevitabile: lei è credente? «Ho avuto un'educazione cattolica, vengo da una famiglia numerosa e radicata nel Vangelo. Col tempo mi sono allontanato dalla pratica. Oggi mi considero una persona alla ricerca del mistero della vita. Che va celebrata comunque. Per questo rifiuto l'approccio pessimista, addirittura nichilista, che verso la vita hanno molti miei colleghi». Una fittissima agenda internazionale lo riporterà presto all'opera vera e propria. «Oltre a due prime italiane in ottobre, l'Alcina di Handel a Firenze e il Béatrice et Bénédict di Berlioz a Genova, a marzo allestirò ad Amsterdam la prima mondiale di Animal Farm, che Alexander Raskatov ha tratto da George Orwell.
In ottobre avrei dovuto andare anche a Mosca, per l'Angelo di fuoco di Prokofiev. Ma non mi sembrava opportuno. Ho comunicato al Bolshoi la mia indisponibilità. Lo spettacolo verrà posticipato. Di quanto? Due anni, almeno».
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