"Un sindacato per gli #influencer": i fenomeni del web scoprono la realtà

La proposta è stata lanciata da una delle star dei social, Mafalda De Simone, che denuncia i rischi in cui rischia di incappare la categoria. Ma basta darsi da fare senza lamentarsi

"Un sindacato per gli #influencer": i fenomeni del web scoprono la realtà

Gli influencer italiani vogliono un sindacato. Potrebbe sembrare una proposta incredibile, eppure se ne parla sempre più spesso. Da ultima, ci ha pensato la 25enne Mafalda De Simone a lanciare l'appello. Di professione fenomeno del web, il suo account Instagram conta 180mila follower, in costante aumento visto il dibattito mediatico scatenato dalla sua battaglia per il bene della categoria. O forse si tratta solo di una trovata di marketing?

Ad ogni modo, il fronte degli "instagrammer" senza tutele è bello corposo e fa leva sul presunto provincialismo italiano che non riconosce la bontà e la dignità di quello che definiscono "il lavoro del futuro". Nel mondo anglosassone, in effetti, dal 2020 esistono le sigle AIC (American Influencer Council) e TCU (The Creator Union) che regolano gli aspetti economici del mestiere, supervisionando i contratti e garantendo un trattamento paritario alle star del web. Non tutti gli influencer - dicono - sono Chiara Ferragni (23 milioni di follower solo su Instagram), molti scoprono il "successo" quasi per caso e quando aumentano i seguaci sopra le 50mila unità si ritrovano catapultati in un mondo più grande di loro. Senza preparazione, senza formazione, senza competenze specifiche, devono trattare contratti con aziende che li vorrebbero come testimonial ma da cui rischiano di essere truffati. Paradossale che un canovaccio simile sia spesso recitato dalle altre parti in causa - gli imprenditori - che denunciano i "capricci" delle star in cerca solo di una notte gratis in un resort o di una cena offerta dallo chef stellato di turno. Un grande tutti contro tutti, verrebbe da dire.

È chiaro che il mondo dei social si basi su meccanismi volatili. Che scoperta. Per non rischiare la fregatura, o peggio, l'oblio, gli influencer chiedono tutele. Ma non sono gli stessi che per darsi un tono si definiscono "imprenditori del web"? Ebbene, l'imprenditoria nel libero mercato funziona così: si studia (in Italia esiste un solo corso specifico per influencer, organizzato dall'università telematica E-Campus), si fa la gavetta, si registra una partita iva presso la Camera di Commercio (per gli Influencer esiste un Codice Ateco, il 73.11.02 - Conduzione di campagne di marketing e altri servizi pubblicitari) e ci si misura col mercato.

Per le burocrazie esistono delle figure professionali a cui far ricorso (commercialisti, avvocati, contabili, agenti), e nel "rischio" è compreso anche quello di incappare in situazioni spiacevoli. Al massimo, basta creare una "Associazione Nazionale Influencer" ed affiliarsi ad una delle sigle sindacali che esistono già.

La sensazione invece è che questi lamenti facciano perdere patina al loro mondo dorato e li rendano

testimonial di idee un po' straccione e per nulla necessarie. Fanno i campioni di stories, foto artistiche e vita mondana per poi, d'improvviso, restare traumatizzati di fronte ad una cosa basilare: la realtà.

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