C'è poco da ridere, si dirà. Eppure nonostante il soggetto, e alla faccia del momento - ridere si può. Anzi, si deve. Ne è convintissimo Antonio Albanese, che con I topi - serie da lui scritta, diretta e interpretata per Raiplay, e da sabato 18 alla seconda stagione anche su Raitre - si è divertito a sfottere l'argomento tutt'altro che ilare della mafia. Immaginando tre latitanti mafiosi costretti a nascondersi in una rete di cunicoli sotterranei, il comico lombardo ha costruito un meccanismo semplice - ma implacabile - di ribaltamento delle prospettive. Il mafioso che ha sempre fatto tremare ora fa ridere. Da seminatore di paura diventa prigioniero della paura propria. Da eroe del male a caricatura di sé stesso.
I topi ribalta ciò è stato spesso imputato alle fiction sulla mafia - cioè il fascino del male - in ridicolo del male.
«Quando l'ho scritto, era proprio questa la mia intenzione. Per anni ho assistito anch'io, da spettatore, a innumerevoli fiction sulla mafia; e l'esaltazione di quelle figure (involontaria, certo; ma oggettiva) l'ho notata anch'io. Per non parlare dell'esaltazione della violenza che, con 200 morti e 300 esplosioni a botta, provoca addirittura una comicità involontaria. Allora ho pensato: perché non rendere comico proprio ciò che teme di esserlo? Forse è proprio con una risata che si disinnesca una bomba».
Come a dire, il potere della comicità. Ovvero: divertimento ma anche riflessione.
«La comicità è la mia missione. Dico sul serio: sento in me il maledetto desiderio di far ridere. E di farlo su argomenti seri. Grazie a I topi ho capito che divertendo che si può far capire ai giovani quanto l'illegalità poggi sull'ignoranza. E che porta, si, all'accumulo dei beni materiali; ma beni che si disperdono in un attimo. Ecco la comicità che mi fa godere come artista. E che vorrei gustare da spettatore».
Eppure quello della mafia è diventato un genere. Spesso stereotipato. Ha ancora senso coltivarlo?
«Uscire dall'emergenza coronavirus ci porterà ad una rinascita. Ma, per alcune comunità, anche all'indebolimento. E in quelle la criminalità potrà rinforzarsi. Quindi continuare a raccontare la mafia potrà servire per contrastarla. Certo: bisognerà farlo nel modo giusto, perché è un tema che rischia l'usura. Come per i programmi sulla cucina: sono troppi. E ogni volta che in tv appare un cuoco si pensa: Un altro?».
C'è un comico in particolare che è stato per lei fonte d'ispirazione?
«Da bambino sono cresciuto godendomi, il sabato mattina alla tv, Stanlio e Ollio e Buster Keaton. Poi a 23 anni, all'Accademia, ero l'unico a portare dei monologhi comici: quelli di Karl Valentin, il cabarettista tedesco della repubblica di Weimar. Insomma: adoro la comicità surreale, espressionista. Che abbini il nonsense al grottesco. La comicità che si trascina dietro uno scheletro, ecco».
La condizione di questi topi auto-reclusi può assomigliare alla nostra, prigionieri del coronavirus?
«Un legame c'è, ma solo apparente. I topi sono pochi, e si recludono per coltivare indisturbati il loro male. Noi, al contrario, siamo la maggioranza. E da questa reclusione volgiamo trarre il maggior bene possibile».
Quali le novità di questa seconda stagione? Ne arriverà anche una terza?
«La prima serie era finita con la rocambolesca fuga di Sebastiano, zio Vincenzo e U Stuorto. Giunti fino al mare per sfuggire alla polizia, i tre dovranno trovare al più presto un nuovo rifugio sotterraneo. Inoltre stavolta ho allargato lo sguardo alle vite private di ciascun personaggio, e preso in giro il loro machismo. Lavoro con le donne da decenni: fosse per me, il mondo lo darei tutto in mano a loro. Quanto ad una terza serie La speranza è che i miei meravigliosi produttori continuino ad essere coraggiosi».
Come passa il suo tempo in casa, Antonio Albanese? E qual è la prima cosa che farà, una volta
libero?«Per prima cosa correrò ad abbracciare mia madre, ottantasettenne e cardiopatica. La seconda sarà invitarvi a pranzo. Ho imparato a cucinare un ragù meraviglioso, sa? E anche le tagliatelle fatte a mano».
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