Quando i film erano muti, in realtà parlavano. Era il linguaggio della musica ma anche quello dell'abbigliamento che il cinema definiva grossolanamente costumi. A suo modo, insomma, lo stile sfilava sul set. Stile, si noti bene, non moda che è un altro concetto, ovvero ciò che cambia con il trascorrere dei tempi fra ritorni e invenzioni, caratterizzando il momento. E sul grande schermo capitava di vestire pure la povertà. O la normalità. Ieri, agli albori della settima arte, come oggi.
Proprio a quei decenni di oltre un secolo fa, origini di una nuova forma di spettacolo, guardano le «Giornate del cinema muto» di Pordenone che hanno inaugurato una serie di conferenze sugli abiti di scena. L'ideatrice è Deborah Nadoolman, moglie di John Landis e direttrice del Center of costume design dell'Università di Los Angeles. Il primo appuntamento, idealmente, doveva collegarsi a Norma Talmadge, la prima vera diva, cui è dedicata la retrospettiva del festival, diretto da Jay Weissberg.
L'occasione ha consentito di uscire dal seminato, partendo dal passato per invadere il presente e toccando anche i colori dei film in bianco e nero. «A Hollywood - spiega la signora Landis - le spose vestivano il rosa e le vedove il rosso. Il motivo è presto detto. Nel cromatismo delle pellicole dell'epoca, il primo diventava bianco e il secondo nero» ripristinando così la conclamata simbologia dei due tipi di donna. Bizzarrie di trucchi visivi e luci particolari.
Se l'occhio non percepiva questi giochi di prestigio in celluloide, non diversamente accadeva dai contenuti. «Le storie possono sempre essere migliorate» ripeteva Piero Tosi, costumista di Visconti, Bolognini, Lattuada, Soldati e via elencando. «Un gran bugiardo - rincara la docente - perché il pubblico non vede i vestiti dell'epoca del Gattopardo, tanto per fare un esempio, ma quelli ideati da Tosi per quel contesto».
L'Italia resta però la patria dei costumisti e Tosi è considerato un maestro nel frugare tra la quotidianità per trovare i capi più adatti. «Si appostò alla stazione Centrale per fotografare le passanti finché trovò una signora, a suo dire, perfetta. Offrì di comprarle il cardigan che voleva dare ad Anna Magnani e quando sentì il nome dell'attrice, quella sconosciuta sulle prime titubante a vendere il golf, finì per regalarglielo».
Stilosità anni '50 dalle sfumature neorealiste in contrasto con la Nuova Hollywood e il postmoderno. «Non mi veste mia moglie - interviene John Landis, regista dei Blues Brothers e Animal house -. Sul set vado vestito come Hitchcock, in giacca e cravatta, perché come diceva lui, ho un deferente rispetto per la settima arte». Tranne oggi, però.
Inevitabile la domanda che non
c'entra, John Belushi. «Era una persona squisita. Dolce. Amabile. In Animal house era sobrio e pulito, Jake Blues invece era schiavo della droga. La tossicodipendenza deve controllarla chi ne soffre, noi non ne siamo capaci».
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