Appesa ad una fune, aerea e vaporosa, volava cavalcando riccioli di nubi. Chi può dimenticare Giulia Lazzarini, fluttuante Ariel nella leggendaria Tempesta di Giorgio Strehler? Nessuno più di lei, interprete di molti spettacoli del grande maestro, amica e testimone privilegiata del suo percorso umano, può ricordarne, nel centenario della nascita (14 agosto 1921), gloria, grandezza, e contraddizioni.
Signora, quale fu il vostro primo incontro?
«Nel 1947, a un provino, che lui chiamava rito infame. Portai un monologo di Piccola città e lui anni dopo mi scrisse: Eri brava già allora. Evidentemente aveva individuato in me quella piccola ombra di malinconia che faceva parte della sua poesia e che, come un rabdomante, cercava in tutti i suoi attori».
Prima del debutto in Giorni felici le scrisse: «Stasera sentirai come non mai la terribile e meravigliosa responsabilità dell'attore»...
«Sì: quella di dare la vita a un personaggio. Mettendoci qualcosa della tua vita; ma rispettando la sua. Un equilibrio difficilissimo. Però il carisma di Giorgio era tale che tu ti abbandonavi con totale fiducia nelle sue mani. Non t'imponeva niente: captava la tua sensibilità e poi, con un piccolo tocco di bacchetta magica, la incanalava dove voleva lui. Al punto che non ho mai sentito un attore dirgli non sono d'accordo con te».
Nemmeno chi lo accusava (sottovoce) di essere un dittatore?
«Aveva una personalità enorme, logico. Ma mai soffocante. Amava la discussione, il confronto. Anzi: li sollecitava. E infatti i suoi spettacoli erano un prodigio di armonia: regia, scene, luci, costumi. Tutto».
Per Strehler il teatro non era solo spettacolo.
«Era anche responsabilità civile. Secondo la lezione di Jouvet, di Brecht: senza retorica, attraverso la poesia. Per questo amava tutti i personaggi, anche i cattivi: anche dai cattivi, indirettamente, si può imparare a essere migliori. E finiva che con lui ci formavamo non solo come interpreti, ma anche come persone».
Sulla scena leader assoluto, perfezionista instancabile, magico demiurgo. E fuori scena?
«Generoso. Amante della vita. E onesto. Ricorda quando fu accusato di truffa, e reagì dichiarando mi dimetto da italiano? In seguito fu scagionato, ma intanto non tollerava si dubitasse della sua etica. Non credo desse molta importanza al denaro. Gli piaceva averne, certo; ma non ne accumulava. Allegro ma non compagnone. Gli piaceva stare da solo: nella solitudine germinava la sua fantasia».
Troppo divo, secondo alcuni: gli rimproveravano un narcisismo congenito, una vanità autoreferenziale.
«Sapeva di valere: questo è certo. Vanitoso? Gli piaceva essere riconosciuto, celebrato. Ma aveva anche tante insicurezze. Perché non girò mai un film? Perché non lavorò mai in America? Ho troppi impegni, non so bene l'inglese.... Solo scuse. La verità è che, fuori del suo teatro, temeva di non essere all'altezza».
Lui e le donne. Il fascino del maestro che diventa quello del seduttore?
«Da quel Giorgio era prudente tenersi alla larga. Altrimenti ci voleva un bel coraggio: non era facile stargli accanto, bisognava accettare tante cose, fra cui un rapporto movimentato. Infatti le sue compagne - Valentina Cortese, Ornella Vanoni, Andrea Jonasson - erano forti, sapevano il fatto loro».
Con lui ha condiviso quasi tutti i suoi titoli più gloriosi, a partire da Arlecchino servitore di due padroni, dove lei faceva Clarice: 2200 repliche, tredici edizioni, il più longevo del teatro italiano.
«Il più bel gioco che abbia mai fatto: recitarlo era pura felicità. C'è un episodio che simboleggia l'eternità dell'Arlecchino. Al ritorno da una tournée in America la nave che trasportava scene e costumi naufragò al largo delle Azzorre. I bauli riaffiorarono su una spiaggia, dove a prendere il sole c'erano... degli attori teatrali! Riportarono tutto a Milano e, quasi come l'araba fenice, lo spettacolo rinacque... dalle acque!».
Il mitico Giardino dei ciliegi (lei era Varja): da allora nessuna messinscena può prescindere da quella.
«Durante le prove dovevo gettare le chiavi di casa ai piedi di Lopachin, che ha acquistato il giardino. Ma il mazzo mi s'impigliò nella cintura del costume. Lo tirai per attimi interminabili, con violenza, con rabbia. Che fai?!, urlò lui. Ora mi sgrida, pensai io. E invece: Rifallo sempre! Hai trovato il gestus brechtiano!».
Come reagì quando le disse che per interpretare Ariel nella Tempesta l'avrebbe appesa a una fune?
«Benissimo: mi divertivo come una pazza! Continuai a volteggiare per anni, senza calcolare i rischi. E alla fine ci rimisi la salute: la pressione del tirante mi rovinò le vertebre. Stavo per dirgli: Giorgio, devo smettere proprio quando lui annunciò: Apriremo il Teatro d'Europa!. E come facevo a dirgli di no?».
Nell'incantevole Campiello le fece fare Gasperina, nonostante...
«... Nonostante il personaggio avesse vent'anni, e io quasi cinquanta. Mi proposi io, per sostituire nella seconda edizione un'attrice molto più giovane. Lui era perplesso. Finché mi scrisse: Ti regalo Gasperina. Magari dovrai fare un po' di lifting.... Invece me la fece fare così com'ero, perché Gasperina è senza età».
Oggi che cosa di Giorgio Strehler è più difficile trovare negli altri registi?
«Il suo intuito per la poesia. Durante le prove de I giganti della montagna il sipario di ferro taglia-fuoco calò per errore sulla carretta dei comici, distruggendola. Si salvò solo una cassetta del trucco dimenticata, con una candela accesa, a proscenio.
Chiunque altro si sarebbe infuriato e basta. Lui invece ebbe una folgorazione: Ecco il finale dello spettacolo! I giganti vogliono distruggere gli attori. Ma l'essenza, la luce del teatro, sopravvivono sempre. Ed è proprio così che fu».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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