Il testamento di Spagnol. I libri non hanno alibi

"Correre davanti alla bellezza" raccoglie i saggi sull'arte di riconoscere un romanzo di successo

Il testamento di Spagnol. I libri non hanno alibi

L'ultima telefonata è più o meno di un anno fa, poco prima della sua morte. Non doveva essere un addio. Non sapevo che stesse così male. Non ci sentivamo spesso, solo quando a uno dei due veniva in mente l'altro, per un particolare insignificante. Come al solito parlammo di Inter, con quel disincanto di cui i tifosi nerazzurri non riescono a fare a meno. Mai illudersi. Mi chiese qualcosa sul mio ritorno a Milano e su quello che facevo. «Sto scrivendo un romanzo per la tua casa editrice».

«Salani?»

«Salani».

«Non lo sapevo».

«Non so se ti piacerà».

«Dovrei leggerlo».

«Dovrei finirlo».

Luigi Spagnol è morto il 14 giugno 2020. Il virus non c'entra nulla. È passato appunto quasi un anno, ma non sono qui per commemorarlo. È che ho qui davanti un suo libro postumo e sarà in libreria tra un paio di giorni. È una raccolta di suoi scritti, dove parla del suo mestiere di editore, di una vita da lettore, di quanto sia bello e raro imbattersi in uno scrittore che ti spiazza, dei pregiudizi sul melodramma e dei suoi quadri. «Ogni tanto penso che la pittura sia la strategia che mi sono costruito per rimanere solo con me stesso». È una frase che ho sottolineato dal dialogo con Demetrio Paparoni, critico d'arte e suo vecchio amico. Il titolo del libro è Correre davanti alla bellezza (Longanesi). Scrive Luigi Spagnol: «Credo che sia stato Picasso a dire che l'artista non deve inseguire la bellezza, ma correrle davanti (ero convinto che l'avesse detto Picasso, ma non sono riuscito a ritrovare la citazione da nessuna parte)».

Correre davanti alla bellezza ti fa fare pace con il mondo della cultura. Non ci trovi tutto quello che finisce per irritarti. C'è lo sguardo di un uomo che sapeva fare bene il suo lavoro, uno che non credeva ai miracoli (editoriali) ma li sapeva fare. Questa scopiazzatura di De Gregori, tra l'altro, non gli sarebbe piaciuta. Luigi Spagnol era il vice presidente della Mauri-Spagnol, il gruppo Gems nel quale confluiscono tutte le case editrici di proprietà di queste due storiche famiglie dell'editoria italiana. Ne citiamo solo alcune: Longanesi, Garzanti, Ponte alle Grazie, Salani, Guanda, Nord, Corbaccio, Chiarelettere. In tutto sono venti. Luigi non parlava mai molto dei libri fortunati. Non si è mai sentito un cacciatore di bestseller. Lo è stato, certo, e pochi come lui. I primi sono stati Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepúlveda e Parola di Giobbe di Covatta. Non aveva algoritmi per scovarli. Il metodo era piuttosto personale: sentiva una sorta di vibrazione, come un rabdomante. Nulla di soprannaturale. Si «innamorava» del romanzo o del saggio. Il suo compito era farlo diventare un libro. «Mi è stato chiesto più di una volta come mai nel 1997, a pochi mesi dall'uscita in Inghilterra e qualche anno prima che diventasse un fenomeno internazionale, ho deciso di pubblicare in Italia Harry Potter, nonostante che qui da noi il genere fantasy non avesse allora un grande seguito. La verità è che non avevo capito che fosse un fantasy. Ovviamente lo è, non sto cercando di negarlo. Ma altrettanto ovviamente è mille altre cose. E io, per fortuna, mi sono lasciato conquistare da qualcuna di quelle altre mille cose. Forse, se avessi pensato che era un fantasy, avrei esitato a comprarlo». Il segreto della saga di Harry Potter infatti non è la magia, ma la quotidianità del mondo magico.

L'ultima lezione di Luigi Spagnol è non cercare alibi. Non vale sono per gli editori. È universale. È il vizio di chi scappa dalle responsabilità e trova sempre una scusa per errori e insuccessi. È il prezzo della libertà. Si chiama responsabilità. «Da noi è fatto divieto dire: i miei libri sono tanto belli, ma non vendono per colpa del commerciale, o del marketing, o dei librai, o dell'ufficio stampa, o non so, della situazione culturale del Paese. Non perché queste cose non siano vere. Sono sempre vere. Sono sempre queste le ragioni per cui un libro non si vende. Il commerciale non ci ha creduto, i librai non l'hanno capito, l'ufficio stampa non si è impegnato abbastanza, i lettori non erano pronti.

Ma il fatto è che i nostri direttori editoriali sono responsabili in prima persona dei rapporti con il commerciale, con il marketing, con i librai, con l'ufficio stampa e anche con il Paese». Tutte le cose dipendono da noi, perfino il fato.

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