Tony Bennett, l’ultimo crooner "Il segreto? Nervi sempre saldi"

Si chiama Benedetto, è originario della Calabria e ha una carriera lunga 60 anni. "Andy Warhol mi disse: sei davvero glamour. Amy Winehouse? Volevo aiutarla"

Tony Bennett, l’ultimo crooner "Il segreto? Nervi sempre saldi"

Firenze - «Sono tanti gli artisti che sono finiti con i nervi a pezzi». A dirlo è uno il cui sistema nervoso non fa una grinza, anche dopo 60 anni di carriera. È Tony Bennett, l’ultimo crooner vivente (a parte Michael Bublé), cantante jazz melodico, tanto per intenderci un po’ stile Frank Sinatra (anche se lui s’è ben guardato dall’imitarlo). A 85 anni, fa un concerto ogni due giorni, si regala un paio di cd duettando con i big di ieri (Streisand, Stevie Wonder, Sting, Bono) e di ultima generazione: Lady Gaga, per dire. Amy Winehouse incise proprio con lui la sua ultima canzone: Body and Soul. Mancava giusto un film-documentario. È arrivato pure quello. S’intitola The Zen of Bennett, girato da Unjoo Moon e il figlio Danny Bennett. È stato presentato sabato, in prima europea, al Festival Tribeca di Firenze, nella città dove il cantante si esibisce lunedì, per il Tuscan Sun Festival. L’artista sarà di nuovo in Italia, Roma e Lucca, in luglio. Tanta Italia, dunque. Del resto, dietro l’americano Mr Bennett si nasconde un cognome italico, Benedetto: quando dalla Calabria, i genitori migrarono negli Usa, l’origine italiana era solo un intralcio, si decise che era meglio americanizzarsi. Che poi, basta lo sguardo, quel sorriso latino, per scovare le radici. Italiano anche per come veste, impeccabile. «Andy Warhol mi disse che ormai ero l’unico a mantenere vivo il glamour. Tanti mi chiedono perché indosso sempre la cravatta. Ma è perché voglio essere diverso», dice. Gente ambiziosa questi Benedetto. Il cantante racconta che il nonno materno, una volta arrivato a New York, «non voleva vivere nel quartiere con gli italiani, scelse Astoria perché lì c’erano insegnanti, medici», insomma la middle class. In compenso, «morto papà, la mamma lavorava come una schiava, per un penny. Ricordo quando per il giorno del Ringraziamento la sentii, di là, in cucina, dire che non c’era nulla da mangiare». Bennett ha visitato Podargoni, il paesino di papà, e in cima alla valle ha pure cantato O Sole mio, «ora è una città fantasma, tetra, è rimasto giusto qualche vecchio». Lui scansa la vecchiaia. A Firenze s’è infilato nei musei per tutto il giorno, sicuramente anche per trarre ispirazione per i suoi dipinti. Perché è pure un abile pittore, Bennett, con quadri esposti in gallerie. «Dipingo quasi tutti i giorni. Ho scelto di vivere a New York perché lì sei di fronte alla natura, passo parecchio tempo in Central Park a dipingere». Il pittore preferito? «Rembrandt, è bello, perfetto, nessuno ha mai dipinto così».
Fra i cantanti l’affetto va a Amy Winehouse, «era una grande musicista, diversa da tutti, viveva il momento musicale con sincerità. Volevo aiutarla ad uscire dal tunnel della droga. Quando mio figlio mi diede la notizia della scomparsa, iniziai a piangere. Che tragedia, che peccato. È un piccolo angelo», dice con rammarico. Malinconico quando racconta degli amici che non ci sono più, quando fruga nel passato, ma poi prende il sopravvento la tempra dell’uomo solido, positivo. Che per sedare le tensioni della Winehouse prima dell’incisione, inizia a raccontare alla giovane e fragile collega aneddoti sulla cantante blues Dinah Washington. E ottiene quel che aveva in testa, senza forzare la mano, con la Winehouse che dà il meglio di sé. «Ho avuto sempre tanta fortuna nella vita. Anche nei momenti bui sapevo che tutto sarebbe passato. Si impara dai fallimenti. L’esistenza è un dono. Molti guardano alla vita con rabbia, malinconia e bigotteria: questa è solo perdita di tempo. Sento di aver raggiunto un appagamento interiore, ormai. Avverto la mia solita passione per ciò che faccio.

Mi piace intrattenere il pubblico, la fama passa ma non la qualità e l’affetto di chi ti segue. Duke Ellington diceva: “Spiego al numero uno: non mollare mai. E al numero due: fai quello che ha fatto il numero uno”. Mi piace questa massima».

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