Ci sono film che equivalgono a pranzi in cui le portate si susseguono a ritmo incalzante. Alla fine, rimpinzati a dovere, i commensali non sanno rispondere alla domanda più semplice su che cosa abbiano mangiato. Nope è bulimicamente tutto questo. Si parte da una citazione biblica poco comprensibile tratta dal libro di Naum e si salta di palo in frasca alla storia del cinema, perché i protagonisti si ritengono discendenti del fantino ritratto da Eadweard Muybridge, autore del primo studio sulle immagini in movimento.
C'è il sapore horror di un intreccio parallelo e la fantascienza simboleggiata da un ufo da rispedire alla sua dimensione galattica, attraverso un trucco spettacolare che rende appariscente il film. E c'è soprattutto l'orgoglio black di Jordan Peele che sembra voler fare film solo per la comunità nera. Questo è il motivo per cui Nope rischia di penalizzare anche lui. Non è razzismo dire che al cinema vanno tutti, ma i bianchi, nei suoi set, non sembrano avere diritto di cittadinanza. E se c'è un alto grado di spettacolarità che non può essere dimenticato in sede di valutazione, c'è anche una frattura tra la prima e la seconda parte che sembrano due film distinti, racchiusi sotto lo stesso titolo.
Due fratelli, OJ ed Emerald, hanno ereditato un ranch in California dove allevano cavalli poi venduti a un ex attore, divenuto proprietario di un parco divertimenti in stile western. Ed ecco comparire una nuova chiave di lettura. La loro vita viene totalmente sconvolta quando una serie di fatti inspiegabili hanno come teatro proprio la loro fattoria ad Agua Dolce. Sarà l'inizio di uno studio che conduce lontano i protagonisti mentre gli spettatori si ritrovano rapiti e attoniti davanti alle meraviglie fantascientifiche della scenografia, senza troppo capire dell'ora e mezzo precedente.
Ma tant'è. Non chiedete a Peele di fare - o semplicemente imitare - ciò che hanno fatto Kubrick e Spielberg. Siamo su pianeti differenti dove non c'è ufo o Et che arrivi o traghetti. La classe non è impalpabile atmosfera.
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