Vitaliano Trevisan è uno dei migliori scrittori italiani in circolazione. Basta aprire a caso uno dei suoi libri per rendersene conto: I quindicimila passi (Premio Campiello Francia 2008), Shorts, Works, per citarne alcuni. È anche autore per il cinema e attore apprezzato: uno per tutti, Primo amore di Matteo Garrone.
Ma attenzione, perché Trevisan è uno che non fa sconti a nessuno, meno che mai a sé stesso. Uno dei pochi oggi a seguire alla lettera il motto hemingwayano: «Siediti davanti alla macchina da scrivere e mettiti a sanguinare». Nessun altro è meno preoccupato di ciò che pensiamo di lui. In pratica, lui di noi se ne frega (o quasi). Ecco perché abbiamo voluto intervistarlo, approfittando della recente uscita di un suo testo teatrale (Il delirio del particolare, Oligo, pagg. 92, euro 12) incentrato sulla straordinaria figura dell'architetto e designer Carlo Scarpa (1906-1978), tra i maggiori del Novecento, e che verrà rappresentato il 24 novembre prossimo al Teatro Sociale di Brescia.
Trevisan, partiamo da Il delirio del particolare. Un testo molto bello. Qual è stata la scintilla che lo ha fatto scoccare?
«Come spesso accade, almeno per quanto riguarda i testi teatrali, tutto nasce da una visione, arrivata dopo una visita al cimitero Brion, che è poi la scena finale del testo, in cui la protagonista, al sopraggiungere di un temporale, fa disporre, secondo progetto, una serie di vetri. Il tetto perde. L'acqua, gocciolando, produce una melodia, ed è come se la casa (l'architettura), da tempo non più abitata, riprendesse una vita propria. Sono partito dalla fine e ho scritto a ritroso».
Che cosa l'affascina della figura di Scarpa?
«Vivendo a Vicenza, dove Scarpa ha vissuto e lavorato nei suoi ultimi anni, e frequentando, in gioventù, per lavoro e per passione, l'ambiente dell'architettura nei primi anni ottanta, di Scarpa ho sempre sentito parlare, da chi lo aveva incrociato, come di una figura leggendaria, assolutamente atipica e molto controversa. Da qui ho cominciato a interessarmi all'opera, rendendomi conto di quanto essa fosse il risultato di una concezione dell'architettura molto personale, fuori dalle correnti allora in voga, molto basata sul disegno, sull'approfondimento di materiali e tecniche tradizionali, e su un'attenzione al particolare, anche più minuto, che non credo abbia l'eguale».
All'inizio cita una frase di Frank Lloyd Wright: «If it doesn't leak is not a roof» (Se non perde non è un tetto). Perché proprio in bocca a un architetto? E perché collegarla a Scarpa?
«Beh!, l'ha pronunciata F.L.Wright, in risposta a chi gli faceva notare che, spesso, i suoi tetti non erano impermeabili. Scarpa era un grande ammiratore dell'architetto americano, e anche le sue architetture, come del resto molta architettura moderna, hanno problemi di impermeabilità. Ricordo una mostra, vista in Finlandia, che ritornava su alcune note case di Aalto a distanza di anni, scoprendole piene di infiltrazioni».
Scarpa era «un uomo che rinunciava al necessario per procurarsi il superfluo»?
«Non era ricco, viveva del suo lavoro. Come potesse permettersi le ferie in Roll's Royce con autista, le scarpe fatte a mano, o la carta da schizzi che arrivava appositamente dal Giappone, sembra essere un mistero anche per chi l'ha conosciuto, cosa che aumenta il fascino del personaggio».
Trovi anche tu (come Cecchin, uno dei personaggi della commedia) che quella di Scarpa sia un'architettura di sepolcri, che ha visceralmente a che fare con la morte?
«È senz'altro un'architettura che si pone il problema del tempo, di come resistere al tempo, o sfuggirgli, cosa naturalmente impossibile. Molinari, nella sua introduzione, parla di resistenza ostinata di oggetti e luoghi disegnati da Carlo Scarpa, uno degli autori più amati, citati e insieme invecchiati del secondo novecento». Resistenza ostinata e, insieme, invecchiamento. Ma a invecchiare è l'opera, non il progetto, e la vedova,tornando nella casa abbandonata, ritorna al progetto e ne riattiva le dinamiche al presente. All'ultima domanda non mi sento di rispondere».
In che modo Scarpa era ossessionato dai simboli? Anzi, dal particolare, al punto di restarne ucciso? Nel testo racconti un aneddoto che lo accomunerebbe a Bashò, poeta giapponese del XVII secolo
«La morte di Scarpa è in perfetto accordo con il personaggio, nel senso che mantiene molti aspetti di mistero. Nessuno, tanto per cominciare, sembra sapere perché fosse a Sendai, città in cui ha trovato la morte. Al quesito, l'architetto giapponese Arata Isozaki, in un testo commemorativo, risponde ipotizzando che anche Scarpa, come Bashò anche lui morto nei dintorni di Sendai durante un viaggio , fosse diretto, come il poeta, al mausoleo d'oro, e che Sendai fosse solo una tappa. Probabile si tratti di una coincidenza, ma è una spiegazione molto poetica».
Parliamo del fare arte in senso ampio: che cosa pensa uno come te, abituato a trascendere le regole, del politicamente corretto, ossia dell'idea di censurare o censurarsi per ragioni etiche, nel rispetto della sensibilità altrui? Al New York Times sono arrivati al punto di istituire un ufficio (il sensitivity screening) incaricato di vigilare sugli articoli in uscita per assicurarsi che non offendano la sensibilità di minoranze e così via: che ne pensi?
«Penso che concentrarsi ossessivamente sui diritti individuali faccia perdere di vista quelli sociali, e che ci sarebbe bisogno di un riequilibrio a vantaggio dei secondi. In arte, ma non solo, l'effetto peggiore è senz'altro l'auto-censura, che dà luogo a prodotti edificanti, o lavori a tesi, o, per rimanere nell'ambito della comunicazione, a leggere la realtà in modo appunto corretto, ossia tale da confermare le tesi di partenza».
In questo Paese, ma forse non è il solo, c'è l'abitudine a dividere le persone in buoni e cattivi.
«Credo che la realtà sia molto più sfumata, e che decidere in anticipo chi è vittima e chi carnefice, riduca di molto la complessità della natura umana. Poi i buoni, per essere buoni, hanno bisogno dei cattivi».
Una volta hai scritto che in Italia «se c'è la possibilità di fottere e chiagnere, fottiamo e chiagnamo perché così fan tutti». Perché siamo così?
«Penso sia una caratteristica della natura umana che però, per
quanto riguarda il nostro Paese, trova terreno fertile. Credo che le ragioni vadano cercate nella storia. Mi viene in mente Gramsci, La questione meridionale, i Quaderni, letture che, in questo senso, offrono molti spunti».
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