A trent'anni faceva il tassista a Manhattan, poi ha girato una cinquantina di film interessanti, dopo aver studiato cinema con Martin Scorsese; ha vinto diversi Oscar, ha litigato un po' con la cocaina (oggi va a Coca Cola) ed è diventato talmente intimo di Vladimir Putin da chiedergli d'essere il padrino della figlia Tara Chong. Una vita così intensa merita un'autobiografia e Oliver Stone, 73enne regista di Platoon (Oscar 1986) e di Nato il 4 luglio (Oscar 1990), intraprende un tour italiano per parlare di Cercando la luce (La nave di Teseo, pagg. 300, euro 22; da dopodomani in libreria), robusto memoir che, finalmente, ha un protagonista di sua piena soddisfazione. Un soggetto descritto con accuratezza, senza gli arbitrii storici regalati ad Alessandro Magno, cui dedicò un film-flop. Se stesso, cioè. Personaggio controverso e regista internazionale. Ammiratore di leader discutibili, da Castro a Chavez, e cocco d'una sinistra globale che lo idolatra, nonostante egli sputi sui leftist occidentali. Dov'è lui, Oliver il fumantino, c'è discussione, movimento, interesse. Per questo la Tim lo ha invitato a inaugurare a Roma, al laghetto dell'Eur, la prima arena sull'acqua della Capitale e la Regione Marche gli ha confezionato un giro promozionale tra Pesaro, dove sarà ospite del festival del cinema della città, Bassano del Grappa, per la Milanesiana, e Venezia, il 5 settembre, dove il regista ritirerà il Premio «Kinéo» alla Carriera.
«Il politicamente corretto non è un concetto che mi interessa. Adesso non puoi fare un film senza consulente Covid. Non puoi fare un film senza un consulente che badi a non urtare la suscettibilità di nessuno. È ridicolo: un film le cui riprese duravano 50 giorni, ora ne richiede 60! Sono stato in Vietnam, non voglio vivere di paure», dice, deprecando che tutto sia «diventato troppo fragile». Lui, d'altronde, è manifesto carnale della capacità di sopportazione della vita: dalle labbra spesse fuoriescono giudizi perentori e dalla sua persona promana un che di furibondo. Eppure, la prosa di Cercando la luce è elegante, sorvegliata. «La luce piena del giorno rivelava i cadaveri sui carretti, il napalm polveroso e gli alberi grigi», scrive Stone dopo una battaglia ai confini con la Cambogia, ai tempi della guerra in Vietnam che egli ha combattuto da giovane eroe: vent'anni e due Croci di bronzo al valor militare. Non a caso, Platoon è il primo film scritto e diretto da un veterano del Vietnam. Perché si era arruolato volontario, dopo l'espulsione da Yale, l'università per i bravi ragazzi americani? Per via del divorzio dei genitori: papà Louis, broker newyorchese, non sopportava più mamma Jacqueline, parigina poco amante degli Usa. «Se i miei genitori si fossero conosciuti bene, prima di sposarsi, non si sarebbero uniti e io non sarei mai esistito. I bambini come me, nati da una bugia originaria, soffrono. E a loro sembra di non poter più credere a niente e a nessuno. Gli adulti diventano dannosi. La realtà porta solitudine», riflette il cineasta e sceneggiatore (anche qui, Oscar a tempesta, da Fuga di mezzanotte a Gli intrighi del potere), incline alle teorie complottiste e pronto a girare il docufilm Bright Future e una nuova versione di Jfk, ovvero Jfk: Destiny Betrayed. «Siccome il film è uscito nel 1999, c'è molto nuovo materiale che è venuto alla luce e che la gente ignora», chiarisce. Quanto a Bright Future, «si tratta di un documentario sull'energia nucleare. Già so che non sarà popolare, ma importante per me. Al cinema, oggi, c'è una tale competizione, per cui prima si decide che cosa andrà bene per il pubblico», afferma. All'Eur, ieri ha commentato Wall Street: «Per la prima volta collaboravo con mio padre, riportando quello che era stato il suo lavoro a Wall Street per 45 anni. Da quel film è cambiato l'atteggiamento verso i soldi: prima, parlarne era volgare. Il budget era elevatissimo e io lavoravo al di fuori del sistema».
Nella lunga carriera di Stone, voce autorevole d'una generazione che ama e odia l'America, gli incontri con i pezzi da novanta del firmamento hollywoodiano sono stati molti. «Per Platoon avevo scelto Keanu Reeves, come protagonista, non Charlie Sheen. Ma Keanu odiava la violenza della sceneggiatura e rifiutò», rivela. E se a Hollywood chiunque ha una storia da raccontare su Oliver «andavo in giro fatto e mi drogavo in pubblico, oppure flirtavo con qualche ragazza carina, in presenza del suo accompagnatore: un comportamento stupido e immaturo» - anche lui ha storie da raccontare su Hollywood. «Con Al Pacino, scambi frequenti, sul set di Scarface: è un tipo che vuole avere l'ultima parola». E Tom Cruise «voleva fare a tutti i costi Nato il 4 luglio. Aveva 27 anni, s'immerse nella parte, trascorse molto tempo sulla sedia a rotelle, sentiva la pressione e si ammalò, per questo».
Ma qual era l'urgenza di un'autobiografia? «Rappresenta la chiusura di un ciclo. Racconta la storia di me ragazzo, un ragazzo che parte dalla sua vita a New York e dalla devastante esperienza fatta in Vietnam, e che ti porta a vedere il tuo Paese diversamente da come avevi pensato che fosse, crescendo». E può darsi ci sia un seguito.
Su Trump, un tempo ammirato, Stone è drastico: «Il problema non è lui. Sia il partito democratico che quello repubblicano sono orientati alla spesa militare: un trilione di dollari l'anno. Ciò riguarda anche voi, che credo siate il Paese con più basi americane dopo la Germania».
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