La regina Vittoria d'Inghilterra annotò nel suo diario la morte di Vittorio Emanuele II con parole commosse: «Oggi è l'anniversario della morte dell'imperatore Napoleone. Ho cantato un poco con miss Ferrari, e mentre stavo cantando ho ricevuto la notizia della morte del povero Re d'Italia, avvenuta alle 2 di oggi. Molto colpita; e per di più il giorno di questo anniversario! Ambedue i miei fedeli alleati nella guerra di Crimea!». Era il 9 gennaio 1878 e Vittorio Emanuele II stava per compiere cinquantotto anni essendo nato a Torino il 14 marzo 1820.
Il ricordo della regina prosegue: «Era uno strano uomo, sregolato e spesso sfrenato nelle passioni (specialmente per le donne), ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, e con molta energia e grande forza». Lei lo aveva conosciuto ventitré anni prima, nel 1855, in occasione di un viaggio che il conte Camillo Benso di Cavour, in un momento di stasi della guerra di Crimea, aveva organizzato a Parigi e a Londra, ufficialmente per sollevare lo spirito di Vittorio Emanuele II colpito dalla morte della moglie, ma, più probabilmente e realisticamente, per rafforzare i legami del Piemonte con la Francia e la Gran Bretagna.
In quella occasione Vittorio Emanuele fece colpo sulla sovrana malgrado i modi poco ortodossi rispetto alla rigida etichetta tradizionale. I giudizi di Vittoria, consegnati al suo diario o alla sua corrispondenza privata, sono significativi: «È un uomo rozzo. Balla come un orso, parla in modo sconveniente: ma, se entrasse il drago, sono sicura che tutti fuggirebbero, tranne lui. Sguainerebbe la spada e mi difenderebbe. È un cavaliere medievale, un soldato, questo Savoia». E ancora: «Quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui».
Nelle parole della regina del più potente Stato dell'epoca sono evidenziati alcuni motivi che concorsero a creare il mito del «re galantuomo». Quelle parole, però, spiegano, al tempo stesso, la funzione che ebbe il primo re d'Italia nel far accettare alle diffidenti corti europee il nuovo regno. Il contributo effettivo di Vittorio Emanuele II al Risorgimento un contributo troppo spesso messo in ombra o ignorato da una letteratura faziosa e pregiudizialmente antisabauda fu, soprattutto, quello di rassicurare il «concerto delle potenze» europee sul fatto che la «rivoluzione nazionale» italiana non avrebbe provocato scosse telluriche nell'equilibrio internazionale. Non è affatto un caso che, come ha sottolineato Gioacchino Volpe, egli, in particolar modo quando non ebbe più un Cavour a contenerlo e guidarlo, abbia potuto offrire il meglio di sé cimentandosi nel campo della politica estera con un protagonismo che in diverse occasioni lasciò meravigliati diplomatici e statisti.
Vittorio Emanuele II fu «accreditassimo», per usare ancora un'espressione di Volpe, nelle Corti europee, ma fu anche, si può aggiungere, popolarissimo in patria, proprio per la sua capacità di sapersi cattivare le simpatie di tutti. Era e si sentiva un re, anzi un re che governa. Orgoglioso del passato millenario della dinastia, si poneva su un gradino superiore a quello dei suoi interlocutori, ma al tempo stesso con la bonomia e il tratto anticonformista, riusciva a dare la sensazione di mettersi sul loro stesso piano. Un grande storico, Federico Chabod, ha osservato in proposito: «Qui era in gran parte il segreto del fascino ch'egli esercitò, indubbiamente, e non solo sui piccoli borghesi e sui contadini incantati dalla sua speditezza di modi, ma anche sigli uomini politici: qui era una delle sue doti vere di capo di Stato, che poté dunque agire personalmente, e non solo per imposizione ma per consenso».
Proprio al primo re d'Italia, lo storico piemontese Adriano Viarengo ha dedicato una nuova e approfondita biografia, Vittorio Emanuele II (Salerno Editrice, pp. 504, Euro 29), che riserva, al contrario di molte altre, largo spazio agli anni giovanili del futuro sovrano per indagare il tipo di educazione che questi ebbe e fino a che punto tale educazione, tanto sotto il profilo culturale quanto sotto il profilo religioso, fosse stata davvero da erede al trono. Il padre, Carlo Alberto, il re che aveva concesso lo Statuto, si era formato una solida cultura economica e di scienza dello Stato che il figlio certamente non ebbe ma cui supplì con la consapevolezza di dover «gestire un ruolo», quello di sovrano, cui attribuiva «un valore straordinario» anche in quella «sorta di vacuum che è il regime costituzionale».
Vittorio Emanuele II non dimenticò mai di essere un re con vocazione certo di governo, ma un re costituzionale che aveva a che fare con le istituzioni rappresentative: una Camera non docile e un Senato, pur di nomina regia, non privo di qualche asperità. Esercitò, secondo la lettera dello Statuto, tutti i poteri che gli erano riservati, dall'individuazione dei presidenti del Consiglio alla nomina e revoca dei ministri e, persino, in qualche caso, dei governi. Ma è probabile che sia stata proprio la consapevolezza di essere, come si leggeva nella intitolazione dei suoi atti pubblici, «per grazia di Dio e volontà della Nazione, re d'Italia» a consentirgli di sviluppare quei tratti di bonomia, umanità e affabilità che lo resero amato e popolare al di là delle distinzioni sociali.
Ci furono, certo, anche alcuni «miti fondanti» che accompagnarono lo sviluppo e la storia del regno, prima di Sardegna e poi d'Italia. Viarengo ne ricorda due: l'immagine iconica del «re galantuomo» e la «leggenda di Vignale», quando, appena asceso al trono, dopo la sconfitta di Novara, Vittorio Emanuele minacciò di usare le maniere forti durante le trattative per l'armistizio. Ma altri ancora se ne potrebbero individuare, come, per esempio, quello di voler essere, secondo le parole di un celebre discorso, «il primo soldato dell'indipendenza italiana». Sempre, i «miti fondanti», per quanto suscettibili di revisioni critiche e ridimensionabili, hanno una consistenza reale che non può essere messa in discussione. Nel caso di Vittorio Emanuele II essi nacquero e acquistarono forma, al di sopra e al di fuori della politica, nella caldissima stagione risorgimentale diventando elementi simbolici per i sudditi contemporanei e le generazioni successive. Vennero percepiti, insomma, come «verità storiche».
E questo, alla fin fine, è davvero quel che conta tramandando l'immagine di un sovrano che, raccogliendone l'eredità, riuscì a completare l'opera iniziata dal padre Carlo Alberto e a realizzare l'unificazione spirituale e politica del paese in un momento storico particolarmente delicato e turbolento a livello internazionale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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