La spigolatrice di maliziose memorie

Il romanzo di Irene Dische percorre quasi tutto il ’900, dalla Germania nazista agli Usa di fine anni ’80

«Ebrei!», sbuffò la nonna rivolta al marito il sabato sera in cui, visti i risultati, s’era risolta a respingerne le avances. Il nonno, infilandosi tra le lenzuola, aveva timidamente tirato in ballo l’argomento - o il comandamento - secondo cui, dai tempi antichi, giacere con la moglie nel giorno di Shabbat sarebbe dovere sacrosanto: «perché nel momento culminante ci si avvicina a Dio», garantiva il buon uomo in tutti i sensi fedele e devoto.
Lei però era in ogni senso di tutt’altro credo. E più d’una volta, sul talamo nuziale, aveva professato - con manifesta esibizione di cerimonie rituali - la propria devozione alla fede cattolica. Sdraiata sulla schiena, le gambe sollevate all’aria, le piante giunte come mani - «quasi che pregassi con i piedi» - aveva (ginnicamente) innalzato all’Altissimo la supplica di una gravidanza benedetta. Ma Dio non aveva ascoltato le sue preghiere. Così, forte della divina indifferenza, la pia donna poteva a ragion veduta sostenere - argomento contro argomento, comandamento contro comandamento: la Sua Parola contro il Verbo di Lui - la propria riluttanza alle attenzioni del consorte. «Stando a quello che dice la Chiesa - predicava - queste cose si fanno per avere dei figli. E se non è per i figli, la Chiesa dice che non si fanno».
Comincia così Irene Dische, frugando nell’avito lettone, a scoprire i segreti, gli altarini - adorni vuoi di croce e ostiario, vuoi di Menorah e Torah - e i vecchi tesori di famiglia. Ma a scanso di indebite incursioni, anacronistiche piuttosto che impertinenti, nell’intimità dell’alcova, la nipotina lascia senz’altro che sia l’antenata a scuotere le coperte e ribaltare i materassi per tirar fuor quel che c’è da tirar fuori.
Se La nonna vuota il sacco (riferisce alla lettera la scrittrice, titolando il suo romanzo tradotto da Riccardo Cravero per Neri Pozza, pagg. 330, euro 17) sul tappeto se ne rovesciano delle belle. Alla rinfusa. Perché la vecchia Elisabeth che, nata Gierlich in Renania venne alla luce del mondo nel 1891 e, coniugata all’ebreo Rother in Alta Slesia, la vide spegnersi a New York nel 1987, pesca nell’arco di quasi un secolo tra i suoi ricordi così come le vengono in mente. Ma confusione non ne fa: ha memoria ferrea e lingua lunga. E reticenze non ne ha: né ha peli sulla lingua. E delle scabrose vicende capitatele addosso in 96 anni - più fuori che dentro la sua camera da letto - riporta magagne e dettagli con la buona fede e la coscienza pulita della cristiana convinta e sincera. Doveva sapere fin dall’inizio a che cosa sarebbe andata incontro il giorno in cui disse sì alla proposta di matrimonio di quel figlio d’Israele il quale - d’accordo - prima che lei aveva sposato il suo credo e si era fatto battezzare.
Non poteva sapere però che molto presto certe bizze coniugali sul modo migliore di santificare le feste alla vigilia del weekend sarebbero diventate un affare di Stato. Invece: «Venne fuori che il governo aveva promulgato una legge che proibiva il mio matrimonio con Carl». La drasticità delle misure adottate poi dal regime hitleriano per estirpare alla radice i semi della discordia in grembo alle coppie miste è risaputa. Ricordarla schiuderebbe uno scenario triste, desolante e già visto mille volte. Invece sul terreno dove cresce il vecchio albero familiare della nonna, innestato su un ceppo di discendenza ebraica, trapiantato negli Usa al momento di scegliere tra la deportazione e l’esilio, rampollato per tre generazioni in linea femminile fino a Irene - che di Elisabeth ha, da narratrice, la stessa vena e, da nipote, lo stesso sangue - si spalanca uno spettacolo inaudito. Un giardino fiorito. Cogliendo fior da fiore, saltando di ramo in ramo - «Dov’ero rimasta? Ah, il mio aspetto», «Dov’ero rimasta? La mia giornata». E «... di questo dirò più avanti», «Dirò di più dopo. Molto di più» - la spigolatrice di truci memorie va intrecciando le sue (lunghissime!) ghirlande con tecnica narrativa irresistibile. Privilegia l’aneddoto alla saga. L’episodio alla Storia. Al documento lo sketch. Al resoconto la gag.
E, alla fine, il racconto - storico, documentato e autenticamente vero! - della più grande tragedia dell’umanità si legge come la più deliziosa delle commedie umane. Complice - va detto: si dovrà pur vuotare il sacco - è la nipotastra. L’Irene che - nata a New York 52 anni fa dalla figlia di Elisabeth, Renate, e dal Nobel Biochimico il Dr. Dische e domiciliata a Berlino dagli anni Ottanta -, con quel quarto di sangue ebraico che si porta dentro, non è reinrassig come l’ariana e cattolicissima sua nonna. Si prenderà perciò la licenza di inquinarne con l’inchiostro le memorie. Ma «la colpa, se mia nipote è così complicata», comincia subito col dire la romanzesca, nonagenaria narratrice, «è soprattutto del seme cattivo di Carl», che seppe generare un figlio solo, per giunta femmina: del sesso sbagliato.

«Ebrei!», sbuffava. Intanto poi non teneva nascosta in fondo al sacco l’ammissione d’essere perdutamente innamorata di quel suo Doktor Rother che «con gli occhi neri, con il suo grosso naso, aveva il potere di scombussolarmi».

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