Addio al ct perdente e amato di un'Italia da notti magiche

Azeglio Vicini fallì il mondiale in casa ma il Paese non infierì. Tecnico gentiluomo, svezzò una squadra di fuoriclasse

Addio al ct perdente e amato di un'Italia da notti magiche

Ogni tanto avvampava nelle gote e i suoi occhi strizzavano gioia. Mai rabbia. Si dice «era una brava persona». Significa molto, nel caso di Azeglio Vicini, uomo di football vero, calciatore prima e allenatore dopo, soprattutto mai sgarbato, aggressivo, superbo. Spiegava il calcio con esempi chiarissimi, avendolo frequentato sul serio, nelle battaglie di serie B con il Lanerossi Vicenza promosso, con la maglia della Sampdoria e infine a Brescia, l'ultimo spogliatoio prima del posto fisso in federcalcio. Perché così era il football del tempo, allenatori che mangiavano pane e pallone, dalla juniores all'Under 21 alla 23 e, infine, alla nazionale grande. Vicini aspettò in silenzio il suo turno, davanti aveva il monumento del Vecio. Enzo Bearzot aveva costruito l'Italia dei profumi mondiali già in Argentina, per poi arrivare al trionfo, quattro anni dopo, in Spagna. Con quel nome da patriota, Azeglio aveva studiato sistemi e moduli di gioco, in viaggio sui campi inglesi aveva completato il bagaglio di conoscenze. Non spacciava mai lezioni di tattica, non era mai inquieto nelle conferenze stampa, raccontava barzellette ed era un galantuomo e un gentiluomo, sempre disponibile a rispondere alle cento telefonate di noi cronisti maligni, a qualunque ora del giorno.

Sua moglie Ines, con la stessa educazione, gli stava di fianco dovunque, anche in quell'alba improvvisa, erano le 5, quando strillò al marito che un ladro maledetto stava portando via l'auto di suo figlio Luca. Tre giorni prima, qualche vigliacco, forse lo stesso, aveva tagliato le gomme della stessa vettura. Azeglio corse verso il balcone, pioveva, scivolò sulla pietra viscida, saltò la ringhiera e cadde come corpo morto cade sul telo della pizzeria sotto casa. Stava steso, senza fiatare e la Ines pensò al peggio. In verità Azeglio Vicini, centrocampista di cuore e non di stile raffinato, aveva il fisico giusto, da buon romagnolo gli bastarono i tagliolini e la frutta cotta che l'ospedale Bufalini di Cesena gli servì, per riprendersi dall'accaduto-caduto. Il piede destro era ridotto malissimo ma tre mesi dopo il cittì stava già in panchina.

Sapeva, dunque, di calcio, dovendo gestire una scolaresca eccellente, da Bergomi a Baggio, da Mancini, da Maldini a Vierchowod e Ancelotti, aggiungo Serena e Ferri e Nicola Berti, ancora Vialli e Schillaci per dire, tutta roba buona, fresca. C'era qualche testina calda, Mancini non entrò mai nelle sue grazie ma la stessa incomunicabilità c'era stata anche con Bearzot. Era una squadra che poteva vincere tutto ma si ritrovò a inseguire le nuvole nel mondiale del '90. Contro l'Argentina ci ritrovammo a un passo dalla finale, il biondo ondame di Caniggia cancellò il sogno grazie alla complicità guascone e assurda di Ferri e Zenga. Ai rigori finì come tutti sanno, gli occhi da pazzo di Totò Schillaci restano la memoria più forte, Azeglio non si accucciò cercando scuse, attaccando gli arbitri. La squadra aveva fatto quello che poteva.

La considerazione della critica nei confronti del cittì fu sempre morbida, quasi di compassione dovrei dire non essendo Azeglio un bersaglio facile ma un buon amico con il quale trascorrere serate in pizzeria, con una piadina o un cassone.

Lo immagino con le gote appena arrossate, in silenzio, dopo la sua ultima notte magica.

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