Un addio "a ruota" da campioni "Io, lui e il nostro ultimo sprint"

Carriere immense e un bilancio fatto assieme alla vigilia della gara del ritiro: il Giro di Lombardia al via domani

Un addio "a ruota" da campioni "Io, lui e il nostro ultimo sprint"

Diciotto anni di professionismo, 54 vittorie, con due Giri, un Tour e una Vuelta, due Lombardia, due Tirreno e una Sanremo, Vincenzo Nibali è all'ultimo chilometro di una carriera fantastica. Un addio che darà al Lombardia, con un'altra leggenda del ciclismo mondiale: Alejandro Valverde, 21 anni di professionismo e 133 vittorie, con cinque Freccia Vallone e quattro Liegi, oltre ad un titolo di campione del mondo. Li abbiamo incontrati e incrociati in questo finale di stagione che li vede in ogni caso protagonisti (Valverde 3° anche alla Tre Valli, ndr) e acclamati come pochi. Chiunque vinca sabato a Como, la festa sarà anche per questi due fenomenali campioni.

Ripensamenti?

NIBALI. «Nessun ripensamento, è giunto il momento e sono felice di farlo in una corsa che ho sempre amato e ho vinto per due volte (2015 e 2017, ndr). Spero solo di onorarla, di lasciare un buon ricordo».

VALVERDE. «È il momento giusto, chiudo con un rendimento ancora di alto livello e mi piace il fatto di non aver portato di certo in giro la bicicletta. Sono ancora molto competitivo e sono contento di quello che ho fatto. Smetto al Lombardia, una classica Monumento che ho sempre amato, ma mai vinto (tre volte secondo, ndr)».

Rimpianti?

N. «Nessuno, alla fine sono soddisfatto di quello che ho ottenuto. Da ragazzino sognavo di vincere un giorno il Giro d'Italia e ne ho vinti addirittura due, poi sono anche arrivati un Tour e una Vuelta: insomma, ho la tripla corona e non sono in molti ad averla: siamo solo in sette. Io con Anquetil e Merckx, Gimondi e Hinault, Contador e Froome: sono in buona compagnia».

V. «Oggi sono in pace con me stesso, ho raggiunto praticamente tutto ciò che desideravo. Il Tour, certo... ma ho fatto podio. Volevo essere campione del Mondo e ce l'ho fatta. Direi che va benissimo così».

Quale è la cosa più difficile dell'essere corridore professionista?

N. «Stare lontano da casa, passare settimane in ritiro in altura al Teide, mai sopportato: peggio di un collegio».

V. «Il ciclismo è 80% testa e 20% gambe. È tutta una questione di mentalizzarsi e di forza di volontà. Non ho mai sopportato i ritiri in altura, difatti non li ho mai fatti».

Come erano i suoi allenamenti?

N. «Delle piccole sfide con i compagni di squadra: per rendere tutto meno stressante e diverte, diciamo pure gioioso. Lo spirito fanciullo è alla base di tutto. Anche se in certi momenti c'erano da svolgere lavori specifici e li non si scherzava più».

V. «Le distanze lunghe non hanno mai fatto per me. La media di allenamento è sempre stata di 120, 140, 150. Il fondo l'ho sempre fatto solo e soltanto in competizione. Credo che anche per questo la carriera è così lunga, non ho mai spremuto il motore come altri».

Ha già immaginato un futuro per il dopo-ciclismo?

N. «Sarò il testimonial di un noto marchio di abbigliamento tecnico e consulente di un team professional che sta per nascere. Però qualche corsa la farò ancora: magari con la gravel e la mountain-bike, per il gusto di farlo e di divertirmi».

V. «Penso di restare al fianco della Movistar, la mia squadra, qualcosa penso di poter insegnare».

Tanti i ragazzi «nati pronti», da Pogacar a Evenepoel: chi vince presto, difficilmente arriverà alla vostra età?

N. «Forse, non è detto, lo sapremo solo tra qualche anno».

V. «Può darsi, anche se è il presente che conta».

Di cosa va più orgoglioso?

N. «Aver vinto un po' di tutto, su tutti i terreni: forte in tante cose, super in niente».

V. «Essere competitivo tutto l'anno».

La vittoria più eccitante?

N. «Tante, dal Giro al Tour al Lombardia, ma il successo alla Sanremo ha forse un sapore speciale. Quel giorno mi sono davvero sorpreso di me stesso».

V. «La conquista della maglia iridata, in età avanzata (38 anni, ndr), diciamo pure pensionabile, è stata una soddisfazione immensa».

La delusione più grande?

N. «Avrei desiderato vincere un titolo con la maglia azzurra. A Firenze per una caduta ho gettato al vento un mondiale, a Rio una scivolata mi ha tolto la gioia di almeno una medaglia olimpica. Diciamo che con l'azzurro non sono stato mai troppo fortunato».

V. «Un alloro olimpico era nelle mie corde, ma non mi andò mai bene».

Cosa resterà nel cuore?

N. «Tante cose, forse tutto. Diciamo che mi ha sorpreso l'omaggio che sia io che Alejandro abbiamo ricevuto dai corridori alla Vuelta. Ad una partenza, siamo sfilati tra due ali di nostri colleghi che ci hanno applaudito. Un omaggio mai visto prima, una cosa davvero molto emozionante».

V. «Quel gesto del gruppo alla Vuelta, che ha coinvolto me e Vincenzo, è stato certamente un bellissimo omaggio. I tuoi colleghi-avversari che riconoscono quello che sei stato per il ciclismo ha un valore unico».

La sua virtù?

N. «Sono un testone»

V. «So affrontare i problemi e le avversità. Riesco a voltare pagina rapidamente e pensare al futuro».

Il difetto?

N. «Sono testone».

V. «Nelle cose mi impunto, ma non so se sia un difetto».

Una cosa che la infastidisce?

N. «Chi vuol fare il furbo e non mi dice come stanno le cose, senza tante balle».

V. «La mancanza di puntualità. Non mi piace aspettare o fare aspettare».

Se non fosse stato un ciclista?

N. «La bicicletta mi ha salvato».

V. «Juan, mio padre, era camionista. Mi ha sempre affascinato il suo mondo. Forse non avrei fatto l'autista, ma magari avrei avuto un'azienda di trasporti».

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