Compie 80 anni l'uomo che è vissuto due volte. Robert Charlton, detto Bobby, sembrava morto alle tre e cinque del pomeriggio del sei di febbraio del Cinquantotto. L'aereo che trasportava il Manchester United, reduce dalla vincente sfida europea di Belgrado contro la Stella Rossa, aveva fatto sosta a Monaco di Baviera, per il rifornimento. Faceva freddo, pioveva e la pioggia ghiacciata si trasformò in tormenta di neve. L'aereo per due volte provò a decollare, le frustate del vento gli impedivano di prendere quota. I passeggeri furono allora invitati a scendere dall'aereo, per motivi di sicurezza. Bobby Charlton aveva vent'anni, era una speranza dello United; la leggenda, insieme con l'allenatore Matt Busby, si chiamava Duncan Edwards. Charlton veniva da Ashington, città della zona mineraria del nord inglese. La sua era una famiglia di carbone e football. Quattro dei suoi zii, da parte di madre, giocavano nel Bradford, nel Chesterfield, nel Leicester e il cugino della madre, Jackie Milburn, era un idolo del Newcastle e della nazionale. Il fratello di Bobby, Jackie, era più alto di quindici centimetri ma più scarso con i piedi, decise di intraprendere la carriera di poliziotto prima di tornare alla passione di famiglia e diventare il feroce difensore del Leeds United e della nazionale. Tra i due il rapporto fu perfetto fino all'arrivo di Norma, la moglie di Bobby in clamorosa rottura con Cissie Charlton, la suocera, che portò i due fratelli a ripetute liti, esplose nell'autobiografia di Jack. Nel libro Jack Charlton accusava il fratello di non avere fatto visita, sconsigliato dalla moglie, alla madre Cissie, in coma.
Torno a quel lungo pomeriggio di Monaco di Baviera. Dopo il secondo tentativo di decollo si pensò che sarebbe stato opportuno rinviare la partenza di un giorno, Duncan Edwards spedì un telegramma alla moglie: «Volo cancellato, torno domani». Ma il comandante pilota cambiò idea, richiamò a bordo i 44 passeggeri, la tormenta continuava a far sbandare il velivolo, Charlton decise di sedersi nelle ultime file, accanto a Dennis Viollet. L'aereo prese velocità ma non quella necessaria per staccarsi da terra, proseguì la sua corsa mortale schiantandosi contro una casa. Bobby Charlton venne scaraventato cinquanta metri fuori dall'aereo, perdeva sangue dal capo, aveva uno zigomo ammaccato, sembrava morto. Di quella tragedia è rimasto in vita solo lui, insieme con Harry Gregg, il portiere.
Charlton tornò in campo a marzo. Incominciò la sua avventura magica. Icona del football inglese e britannico, elegante nel tocco, prodotto tipico di un calcio accademico, centravanti non d'assalto ma di intelligenza, dotato di un tiro feroce e calibrato dalla distanza, punto di riferimento tattico essenziale, insieme con Bobby Moore, dell'Inghilterra campione del mondo nel 1966. Due anni dopo Charlton realizzò due gol nella finale della coppa dei Campioni vinta per 4 a 1 sul Benfica a Wembley. Per la prima volta un club inglese si aggiudicava il trofeo, la coppa venne alzata al cielo in memoria dei caduti di Monaco.
Seicentosei partite e centonovantanove gol con la maglia del Manchester, centosei presenze e quarantanove gol in nazionale. Charlton, dopo quel mondiale vinto a Wembley, così reagì a un cronista: «Continuano a ripetermi che noi calciatori professionisti siamo trattati come schiavi. Se è così datemi l'ergastolo».
L'Inghilterra gli è grata, la regina Elisabetta gli ha concesso il titolo di Sir, la Bbc ha trasmesso un film documentario in suo onore, il mondo del football ne celebra gli ottanta anni di vita. La seconda vita di Bobby Charlton, ergastolano in libertà.
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