L'Italia al femminile trova un altro motivo di orgoglio. Nel giorno in cui entra a Palazzo Chigi il primo premier donna, se ci è consentito l'accostamento al limite del sacro con il profano, c'è anche da festeggiare la prima storica volta di una nazionale di rugby al femminile che si qualifica per i quarti di finale del Mondiale in Nuova Zelanda. L'impresa è arrivata nella notte quando le ragazze del ct Di Giandomenico hanno battuto il Giappone 21-8 confermando i progressi mostrati di recente. Non facciamoci però travolgere dagli sbandieratori che già si avventano su questo successo, bello perché azzurro, ma ancor più appetitoso perché al femminile. Certo, a noi vecchi rugbisti può far piacere vedere una nostra squadra che fa strada in un mondiale, ma non possiamo farlo passare come un riscatto del mondo ovale a fronte delle tante amarezze che abbiamo vissuto in questi anni con la nazionale maschile. Perché è comprensibile l'euforia del presidente Innocenti, ma non possiamo sostenere anche noi che «sognavamo questo momento da generazioni». Ci fa piacere lo ripetiamo per non essere fraintesi che le ragazze si stiano facendo onore, ma non possiamo mettere le due nazionali sullo stesso piano. Se non altro per la differenza che passa in assoluto tra il movimento mondiale del rugby maschile e quello femminile.
Basti pensare che il primo test match delle donne si è giocato nel 1982, un secolo dopo i maschi, e che l'Italia è stata la quarta nazionale a debuttare, prima ancora dei paesi che il rugby l'hanno inventato. Per cui non vorremmo che qualcuno rinfacciasse ai nostri rugbisti di essere stati superati dalle donne E soprattutto che il solerte onorevole di turno non proponesse di farle diventare subito professioniste.
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