Ci hanno tolto il gusto di credere nel campione

La grande tribù della gente normale non potrà mai perdonargliela. Siamo come bambini: se ci tolgono il giocattolo, ci sentiamo traditi. Non giochiamo più

Ci hanno tolto il gusto  di credere nel campione

La grande tribù della gente normale non potrà mai perdonargliela. Siamo come bambini: se ci tolgono il giocattolo, ci sentiamo traditi. Non giochiamo più. E qui non staremo a fare la solita elencazione di campioni maledetti, di chi si droga o di chi si sciroppa litri di alcol, di chi rovina le donne o di chi usa la pistola, di chi cambia mogli (o mariti) come fossero calzini o di chi decide che la normalità sessuale è diversa dalla nostra. Non è questo il problema. Noi vogliamo i campioni con l'aureola, quelli che stanno sulla nuvola e nessuno potrà mai intaccare. La parola “campione“ ha un valore superiore a qualunque altro, uno stadio di intangibilità. Il campione non può essere un vetro che si rompe, un cristallo che si spacca. Deve restare intatto, intonso, il godimento dell'anima. Perché ad ogni campione noi, tifosi, suiveurs, giornalisti, spettatori, regaliamo un'anima.

Ecco perché a tutti si perdona, ad un campione molto meno. Oggi il grande colpevole non è Lance Armstrong. Che si drogasse l'uomo Armstrong è un problema suo. Spiacenti, ma ciascuno è padrone del destino. Invece che si drogasse il campione Armstrong, quello che aveva la corazza dell'invincibile, si trattasse perfino di un tumore, è un insulto al credo, all'aureola. Ecco il vero dramma: viviamo in un mondo in cui i campioni deprimono l'aureola. Abbiamo bisogno di fenomeni, non di piccoli uomini. Fausto Coppi fece scandalo con la sua Dama bianca, ma in fondo l'abbiamo perdonato. Oggi viviamo di peggio. Stupra femmine, uno per tutti: Mike Tyson. Maradona ha ingrigito la sua meravigliosa arte pedatoria fiaccandosi nella droga. Ben Johnson ha bluffato clamorosamente per battere Carl Lewis e il cronometro. Leggiamo che Tiger Wood sta cercando di farsi perdonare dalla moglie per le mille storie de fedifrago e già si intravede un flirt con la sciatrice Lindsey Vonn, seppur smentito.

I campioni sono finiti uccisi in una strada o hanno usato la pistola. Si sono portai via i loro misteri. Meglio così, piuttosto che vederli davanti a una tv a confessare peccati. I grandi della boxe sono figli maledetti di certe storie: da Sonny Liston a Carlos Monzon. Quelli dell'atletica e del ciclismo sono angeli ingannatori. Poi c'è chi muore come Pantani e chi muore come Armstrong. Ci siamo persi Ayrton Senna da giovane, eppure questa è la fine dei grandi. Atroce ma vero.

Ecco c'è morte e morte davanti all'eternità del ricordo e dell'ammirazione. Amy Winehosue rovinata da alcol e droga? Peccato, ma era solo una cantante. Sigmund Freud andava di cocaina? Peccato, era appena un grande psicologo e non solo. Edgar Alan Poe, Jack London, Chales Baudelaire hanno avuto rapporti con la droga? Peccato, erano solo scrittori. Marlon Brando rovinato dalle perversioni sessuali? Peccato, era solo un attore. Un presidente degli Stati Uniti è finito male, caduto dalla poltrona per una storia di sesso? Pazienza, era solo un presidente. Ma i campioni no. Sono molto di più. A modo loro irripetibili. Ci fanno godere e soffrire, si fanno amare e quasi mai odiare. Difficile non averne rispetto, ammirazione, esercitano quello strano appeal che nessun altro essere campione (appunto della cultura, musica, cinema, politica) riesce a trasmettere. Quando sfogliamo libri e foto, quando rivediamo filmati, restiamo abbacinati come fosse la prima volta: lo sprint di Jesse Owens, i pugni di Robinson, Benvenuti e Alì, le corse meravigliose di Coppi, Bartali e Merckx, di Fangio e Senna, le bracciate di Mark Spitz, i tuffi di Dibiasi e Greg Louganis, gli slalom di Thoeni, Tomba e Stenmark, le pallettate di Mc Enroe e Connors. L'eroe trascina più dell'eroina, il campione più della campionessa. Ingiusto, forse, ma così racconta la storia.

Invece, oggi, troppi stanno perdendo l'aureola. E qualcuno, come Messi, sta cercando di conquistarsela. Ma che dire di Muhammad Alì? Ogni volta non ci resta che emozionarci, illuminarci nel rivederlo. A 71 anni appena compiuti, nemmeno il Parkinson lo fa retrocedere nella tribù della normalità.

Alì lotta ancora da re, il più grande spot vivente di chi vuol battersi con la malattia. E, allora, aggrappiamoci a lui per credere che i campioni siano più forti di tutto e tutti. E che lo sport non sia solo business e droga.

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