Juan Manuel Fangio aveva 45 anni quando dalla Mercedes approdò in Ferrari. Era un'altra F1, erano altri piloti, altre monoposto, poche gare, molte vite perse ad ogni curva. Fu subito mondiale, non fu amore, fu divorzio. Troppo ipertrofiche le personalità del campione e di Enzo Ferrari che da quel momento smise di cercare piloti iper medagliati. Hamilton il più vincente di sempre sulla monoposto più ogni cosa di sempre è notizia grassa perché sancisce la grandezza del primo e il rischio di decadenza, sportiva s'intende, della seconda. Perché se da una parte è vero che non puoi dirti fenomeno in F1 se non metti una Ferrari nel curriculum, dall'altra, se sei la Ferrari e riesci ad attrarre un fenomeno solo quando il fenomeno ha quarant'anni, vuol dire che da un po' qualcosa non stava funzionando per il meglio. E questo al netto di una innegabile operazione di marketing di portata stratosferica. Ma sport, medaglie, podi non sono solo marketing.
Adesso però son parole e parole per motivare la validità della scelta da una parte e dall'altra anche se assomigliano più a un esercizio grammaticale per nascondere due debolezze: la prima meno grave della seconda. Perché la prima è umana, è quella dell'uomo Hamilton nato per correre che con un compagno oggi più veloce di lui, con un team oggi meno performante che in passato, fugge scommettendo sul nome, sul blasone, sulla storia e se poi ci sarà anche il colpo di reni tecnico della Rossa tanto di guadagnato. Più grave la debolezza manifestata dalla Ferrari, quasi non si sentisse in grado di tornare grande senza un pilota icona, e che un po' replica la mossa della Juventus con Cristiano Ronaldo. Andrea Agnelli sentiva di avere una squadra non apparecchiata per la grande Europa e fece il passo più lungo della gamba.
John Elkann non rischia il passo più lungo tanto è gonfio il bancomat del Cavallino, però sente che per stare a tavola in F1 come vorrebbe lui serve quel nome alla Ferrari. Come per il cugino, un misto di grandeur e debolezza.
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