Chi dice che il tempo lima le ferite più urticanti probabilmente non ha mai dovuto deglutire un’ingiustizia sportiva. Quella inferta al Milan, anche se oggi sono passati dieci anni esatti, zampilla ancora sdegno. Spiacenti, le suture per l’anima non le hanno ancora brevettate.
San Siro, 25 febbraio 2012. Il freddo lavora le ossa dall’interno e se decidi di appollaiarti su un seggiolino per contemplare lo scontro al vertice, ti ritroverai a tamburellare con mani e piedi per tutto il tempo per fendere il clima glaciale. Nulla, comunque, in confronto ai sussulti che ti attendono. Specie se stringi intorno al collo una sciarpa rossonera.
Nastro che scorre avanti veloce. L’uomo con le mani infilate tra i capelli è un ghanese che si è conquistato la fiducia di Max Allegri a suon di deflagranti incursioni offensive, abbinate ad una discreta attitudine all’interdizione. Di nome fa Sulley, il cognome è Muntari. Ora si aggira per il campo, le braccia spalancate, incredulo. Il ventottesimo minuto è appena scoccato e la Juve è già dall’altra parte. Estigarribia sfila via sinuoso sulla fascia sinistra ed esplode una botta che costringe Abbiati ad un intervento per i flash. Sulley però è ancora lì, immobile, esterrefatto, come uno di quelli eroi di una tragedia di Eschilo che hanno peccato di hybris, l’umana tracotanza di chi crede di poter sfidare le leggi celesti. Gli Dei del calcio ghignano in lontananza, da qualche parte. Solo che, stavolta, di giusto non c’è proprio nulla.
Pallone fuori. Intruglio di voci in mezzo al campo. San Siro sobbolle e rimugina in sottofondo. Sguardi che si fanno tetri. Avvolgendo di qualche frame torna tutto più chiaro. Il Milan sta comprimendo i bianconeri nella loro area: cross dalla sinistra, Mexes svetta di testa angolando ma Buffon si supera respingendo corto. Mettete in pausa e fate attenzione, perché è qui che si confeziona la sliding door definitiva. Qui è l’incastro dove la storia deraglia dal suo corso. Perché Sulley la infilerebbe anche dentro di testa sul rimpallo, ma l’arbitro invita a proseguire. Eppure Gigi nazionale l’ha spinta fuori che era entrata di quasi un metro. Più tardi il portierone soffierà sulle braci incandescenti dichiarando: “Non me ne sono reso conto e sono onesto nel dire che se me ne fossi reso conto non avrei dato una mano all’arbitro”. Finimondo. Ma facciamo retromarcia.
Caressa - che commenta la partita con Bergomi per Sky - ipotizza un offside. Nulla di più sbagliato, perché un bianconero finito dietro la porta tiene in gioco praticamente tutti quanti. Muntari cerca lo sguardo del direttore di gara Tagliavento, poi quello del guardalinee Romagnoli: due sfingi. Allegri, seduto sulla panchina del Diavolo, prova a stiracchiare un sorriso che cela pensieri vischiosi. Conte ancora non lo sa, ma sta per aprire un ciclo che inizia proprio da qui. La scena è surreale. Il Milan era andato davanti con un un gol di Nocerino, abile a sfruttare un disimpegno sanguinoso di Bonucci. Il raddoppio infliggerebbe un duro colpo alle speranze di rimonta della Signora che è arrivata allo scontro diretto con in dote un punto in meno (49 contro 50). Ora i telecronisti invocano una fotocellula montata sulla porta almeno per queste situazioni: “Non si può più evitare”, osservano.
L’ingiustizia tuttavia è compiuta ed è di grana grossa. A fine primo tempo Galliani scende furente come un carro di Erinni negli spogliatoi. Ne ha per tutti. Prima si scaglia contro Conte, colpevole di essersi lamentato troppo in settimana, poi se la prende con Tagliavento. Quindi lascia lo stadio anzitempo, per provare inutilmente a flettere la frustrazione che schiuma copiosa.
La gara riprende e, per dirla tutta, la terna arbitrale conferma lo sfacelo in cui si è inabissata, dissolvendo il pareggio di Matri per fuorigioco inesistente. Il peso specifico dei due torti, tuttavia, va tarato in ragione del momento: andare al riposo sul 2-0, la tesi milanista pare difficile da smantellare, sarebbe stata tutta un’altra cosa. Ad ogni modo è soltanto questione di tempo prima che il centravanti bianconero indovini comunque l’angolo alle spalle di Abbiati, chiudendo in spaccata un cross di Pepe.
La partita finisce in parità, ma le porte scorrevoli che ha fatto sventolare forsennatamente hanno appena cominciato il loro lavoro. La Juve si scola il resto del campionato issandosi in cima. Lo farà anche per le otto stagioni successive, aprendo un ciclo semplicemente implausibile. Lo scudetto soltanto accarezzato e poi smarrito incrina le certezze societarie rossonere. Quello che sembrava un incrociatore inarrestabile inizia ad imbarcare acqua. L’astro luminescente di Ibrahimovic e Thiago Silva decide di emigrare altrove. La granella lasciata dalla scia non basta. Sempre Galliani ha dichiarato che, se i rossoneri avessero vinto quello scudetto, nessuno se ne sarebbe andato. Nemmeno Silvio Berlusconi. Il colpo basso diventa ancor più irriverente quando sfuma anche la possibilità di ingaggiare Carlitos Tevez, finito - nemmeno a dirlo - alla Juventus.
La madre di tutte le ingiustizie sportive ha fatto detonare conseguenze lugubri: la scorza del Milan va decomponendosi e il club si inabissa dentro un lunga perdita d’identità. Lo scafo è riemerso soltanto di recente, scintillando di un nuovo fulgore. Eppure la cicatrice non si richiude. Tutto per una frazione di istanti. Un pallone giallo che fluttua oltre il palo candido. Occhi che si velano impudenti. La storia che imbocca l’unica piega dello spazio e del tempo in cui i conti non tornano mai.
Pozzanghere di lacrime e anime ammaccate in serie. Sì: se quel giorno stringevi intorno al collo una sciarpa rossonera ti sei seduto accanto al tuo lato più vulnerabile, attraversando le pittoresche deviazioni del destino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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