In un calcio che è dovuto ripartire per forza, e che ha inevitabilmente assunto il volto feroce del Dio denaro, si è nascosta ancor di più l'essenza originaria del pallone. Come ha scritto Houellebecq, grande romanziere e intellettuale francese, la pandemia è stata nulla più che un acceleratore: nessun ripensamento individuale o collettivo, solo molta fretta di tornare a ciò che facevamo prima (con annesse rabbia e frustrazione per il tempo perduto). Questo è accaduto soprattutto al calcio nazionale, che prima è ripartito nel sostanziale disinteresse di milioni di italiani, poi ha mantenuto intatto il suo linguaggio e anzi lo ha radicalizzato, sfiorando così il paradosso.
Da Antonio Conte, che ha sfoderato un linguaggio bellico in assenza di guerra, a Maurizio Sarri, grondante di sudore, insicuro, infine esonerato a furor di popolo per aver vinto solo uno scudetto. Insomma tra sfoghi, dichiarazioni roboanti e litigi in panchina (vedasi Gasperini e Mihajlovic), è l'immagine del calcio post-pandemia ad essere uscita con le ossa rotte. Una narrazione autoreferenziale, nevrotica e spettacolarizzata, distante anni luce sia dai suoi naturali destinatari i tifosi e gli appassionati sia dalla propria vocazione: quella di rappresentare, in fin dei conti, pur sempre un gioco.
Così non può far altro che colpire l'istantanea rubata all'Etihad Stadium: mentre l'Italia calcistica era impegnata nel derby tra juventini e anti-juventini, ormai più una puntata di Ciao Darwin che una questione sportiva, a Manchester si giocava infatti il ritorno degli ottavi di finale tra City e Real Madrid. Qui i padroni di casa hanno staccato il pass per i quarti ma, come detto, sono le immagini del post-partita ad aver rotto la narrazione scenica. Dopo il triplice fischio di Brych, con tutta calma, Guardiola e Zidane si sono ritrovati a bordo campo per conversare della partita; come due vecchi amici, o semplicemente come due normalissimi uomini di calcio. Niente giornalisti e tifoserie contrapposte, nessun litigio o gesto eclatante. Per un attimo si è dissolta anche tutta quella retorica tossica su vincenti e perdenti: c'erano solo un vincitore seduto, Pep, e uno sconfitto in piedi, Zizou. Finalmente liberati dell'aura di super-manager, e di personaggi più mediatici che reali, hanno avuto tempo e modo di confrontarsi sul pallone, questo sconosciuto. Una semplice chiacchierata che ha evidenziato tutta la spaccatura tra un calcio che ha inglobato se stesso, diventando business e sistema, e il pallone di cui ci siamo innamorati e con cui siamo cresciuti. Materiale prezioso per necessarie riflessioni.
Tornando a noi, chi invece dovrà riflettere (e molto) è la Juventus. Se innanzitutto ha capito quel che non è, rigettando Sarri come un corpo estraneo, ora deve capire ciò che vorrà essere. Il tecnico ha infatti rappresentato un problema di disarmonia fin dal principio; una storia sbagliata, per citare De André, che si è consumata senza nemmeno la passione degli inizi. Così, nei sogni di mezza estate della Torino bianconera, erano proprio Guardiola e Zidane i due grandi obiettivi di mercato. Da una parte Zizou, il gestore per eccellenza, la versione potenziata di Allegri; dall'altra Pep, il professore del bel gioco, il modello successivo di Sarri con però il carattere, la sensibilità e l'esperienza per imporsi. Diversissimi, ma in fondo neanche troppo. Perché alla fine tutti i discorsi sui moduli e sui sistemi lasciano il tempo che trovano, e il calcio rimane una questione di uomini.
Sarà proprio per questo che Guardiola e Zidane, vicini al campionato italiano nelle suggestioni, nella realtà non potevano essere più distanti. Quella stessa realtà, adesso, non può far altro che incoronare Andrea Pirlo.
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