Parla di «sciacallaggio politico» prima di annunciare le sue dimissioni da presidente della Federcalcio. Novanta secondi per riferire ai consiglieri Figc la sua decisione perché - dirà poi - «si è arrivati a un punto limite di speculazioni». Venti minuti di conferenza stampa in cui è un fiume in piena. «Avevo chiesto anche le dimissioni dei consiglieri, ma nessuno lo ha fatto», esordisce Carlo Tavecchio, ormai ex numero uno di via Allegri. Anche se la frase chiave che racconta il motivo della scelta è l'ultima e tira in ballo - con evidente amarezza da parte sua - il suo mondo da 18 anni, ovvero quello della Lega dilettanti che gli ha voltato le spalle. «Tradimento? Non voglio usare questo termine, ma le pressioni fatte sono inimmaginabili...». Ovvio pensare a pressioni di tipo politico in questa guerra continua e senza esclusione di colpi tra il palazzo del pallone, il presidente del Coni Malagò e il Governo (ministro dello sport Lotti in primis).
C'è dunque da riavvolgere il nastro per capire cosa sia successo nelle tredici ore trascorse dalla dichiarazione tv di Malagò («mi auguro, anzi mi dicono che Tavecchio si dimetterà») con immediata smentita della Figc in un comunicato dettato all'Ansa («niente dimissioni del presidente») e il consiglio federale. Che con la decisione inattesa, ma forse non più di tanto, di Tavecchio regala un'altra giornata convulsa. Il passaggio più importante riguarda proprio il voltafaccia della Lega dilettanti, che in via Allegri conta per il 34 per cento dei voti. Dopo il direttivo nella sede di Piazzale Flaminio, a Tavecchio arriva la telefonata di Sibilia. «Mi dispiace, ma non hai più i numeri», il senso del messaggio del numero uno dei Dilettanti al presidente Figc. Il direttivo si è di fatto spaccato in due (15 contrari a Tavecchio su 27, dicono i ben informati), impossibile quindi sostenerlo in consiglio federale. «Ripartiamo con un nuovo percorso», dirà Sibilia davanti ai microfoni.
L'era Tavecchio, durata tre anni e tre mesi, finisce dunque poco prima di mezzogiorno di ieri. E l'ex presidente comincia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Ed esprime rabbia con uscite in francese e metafore tipo quella dell'ulivo che «dà frutti dopo otto anni» che richiama anche il lavoro di suoi predecessori. «La Lega Pro non è mai stata mia alleata - ha tuonato Tavecchio, che stava studiando un documento programmatico di rilancio - ma la scorsa settimana avevo interpretato in buona fede una volontà di alleanza e invece siamo di fronte a un sistema sportivo che si permette di prendere decisioni gravi quando il soggetto più importante che è il fornitore del sistema Italia è assente, ovvero serie A e serie B: il 23 e 27 eleggeranno i loro presidenti, siamo al 20, ma aspettare una settimana sembrava la tragedia mondiale del calcio italiano». E a chi gli chiede quale sia la sua colpa risponde: «Solo non aver cambiato ct nell'intervallo della gara di San Siro... Ora pago per una scelta non mia. Sono disperato per la mancata qualificazione. Se quel palo di Darmian a Stoccolma fosse stato gol, sarei stato un eroe. Gli italiani sono persone serie e perbene, meritavano la soddisfazione di andare ai Mondiali. Ce l'ho messa tutta, ma so fare qualche tiro col portiere fuori, ai cross ci arrivo a malapena e i rigori non li so tirare altrimenti forse, in Francia, ci qualificavamo...».
Tavecchio ha rivendicato nuovamente le vittorie politiche a livello internazionale, dal Var («la moviola in campo la chiesi già a Blatter nel 2014...») alle nomine all'Uefa di Michele Uva («e non perché è bello...») e alla Fifa di Evelina Christillin («non per gli gnomi dietro la scrivania...).
Passando per le 4 squadre fisse in Champions, il successo che di fatto gli ha regalato il forte sostegno delle big di A. Che però non ha potuto far valere in Figc per l'assenza di rappresentanti dei 20 club del massimo campionato. Ora resterà commissario della Lega di Milano fino all'11 dicembre, poi chissà...
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