Le tragedie shakespeariane della boxe non finiscono mai ed è questa la grande fortuna che accompagna la sua immortalità.
L'altra notte, a Las Vegas, Tyson Fury e Deontay Wilder, uno inglese, l'altro americano, non proprio giovanissimi (33 anni contro 35), due fra i più credibili pesi massimi del ventennio, hanno messo talento, forza, coraggio, abilità e potenza dei pugni per entrare nella galleria dell'immortalità. Ci sono riusciti? Hanno fatto spettacolo, concluso la trilogia, iniziata nel 2018 con un polemico pari e proseguita con un successo dell'inglese, consegnando il risultato che il business voleva ma che la boxe, intesa come qualità, avrebbe sottoscritto. Tyson Fury è rimasto in piedi, Deontay Wilder lo ha steso due volte, durante il 4° round, ma non è bastato. Il gancio destro di Fury si è abbattuto su Wilder all'11° round, come già era capitato nel 3° e nel 10°: stavolta più devastante. Una sintesi tanto immediata e crudele illustra la bellezza di una boxe che, per certi versi, ha riportato ai tempi eroici: alle sfide infinite, ai tre match fra Ali e Frazier o a quelli fra Clay e Norton e perché no alla serie selvaggia fra Ray Sugar Robinson e Jake la Motta, alla trilogia fra Rocky Graziano e Tony Zale o quella fra Emile Griffith e Benny Kid Paret, che segnò la morte di quest'ultimo. «Il 9 ottobre sarà sempre ricordato per questa grande sfida, degna delle trilogie della boxe», così si è celebrato Tyson Fury che oggi non è solo campione dei massimi per la sigla Wbc, ma certamente il miglior massimo in circolazione. Completo nella qualità e nel talento, possiede il pugno che addormenta, ha un solo avversario: se stesso. Si fa chiamare Gipsy King, ama sentirsi il re dei gitani essendo nato da famiglia nomade che ha preso stanza a Manchester. Ma nella vicenda umana, più complessa di quella pugilistica, è incappato nei morsi della depressione, si è immerso nella dipendenza alla droga. La boxe è il suo trono di vita. E chissà non trovi un posto fra i colossi del ring (ieri pesava 125 kg contro i 108 di Wilder) andando a chiudere il progetto che il business attende da qualche anno: la sfida con Antonhy Joshua, l'altro gigante britannico che ogni tanto si fa crocifiggere da pugili che dovrebbero fargli solletico. Stavolta è incappato nei colpi solidi dell'ucraino Oleksandr Usyk, boxeur vero che però non ha la stazza di un autentico peso massimo. Alla statuaria bellezza atletica di Joshua, non corrisponde un animo da gladiatore: i colpi avversari possono far danni. E infatti Usyk, ora campione per le sigle Wba, Ibf, Wbo, ha rovinato l'affare del secolo da punto di vista economico: era tutto pronto per un Fury-Joshua nel regno calcistico di Wembley. Business da centinaia di milioni se pensate che, solo per quest'ultimo mondiale, Fury ha guadagnato 21 milioni e Wilder 14. La riunificazione delle sigle, da decenni, è un giochino per fare soldi. Ma non garantisce sul valore del campione. Così si allunga sempre più l'elenco degli Alphabet boys, ovvero pugili cenerentoli che hanno conquistato qualche titolo, ma non hanno retto la storia. Si cominciò con Ken Norton , Ernie Terrell, Jimmy Ellis, John Tate e molti altri. Oggi aggiungiamo Deontay Wilder, uno dei tanti bombardieri neri, ma con un solo pugno in canna: il destro.
Non così Tyson Fury, che di Tyson ha solo nome e magari qualche colpo stordente, e che si è proclamato «un uomo d'acciaio: sono il migliore del mondo». Forse non a torto. Ma dovrà dimostrarlo contro Usyk oppure Joshua o un terzo incomodo. È la legge di chi aspira all'immortalità nel ring.
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