Piangere per un rigore sbagliato. Capita a mille ma le lacrime di Cristiano Ronaldo hanno fatto cronaca e storia. Anche ipocrita di chi ritiene quello sfogo l'esibizione infantile di un privilegiato, ricco e pure antipatico. È gente strana quella che fa le smorfie dinanzi alla crisi emotiva di un atleta, di qualunque disciplina. Ne scrive e ne parla senza avere mai conosciuto e vissuto quel momento, forte, intenso, profondo, invece osservando in modo freddo, distaccato e poi superficiale, l'evento sportivo. Si può urlare dopo un gol, si può pregare prima di calciare un rigore, ci sono riti previsti e reazioni imprevedibili. Il pianto di Cristiano Ronaldo non fa parte di alcun repertorio scritto o sponsorizzato, è un giovane di trentanove anni che gioca a pallone per il piacere da offrire ai suoi tifosi, al suo popolo e non soltanto per il proprio ego o narcisismo già acclarati in altre posture. Cristiano è il simbolo del calcio portoghese molto più di Josè Mourinho ugualmente vanesio, il suo football è passione fortissima, maniacale perché non figlia naturale della tecnica ma di una preparazione fisica assidua, estrema, professionale ai massimi, la tensione accumulata durante la partita abbisogna di una soluzione, nel suo pfuii dopo un gol, nella rabbia per un passaggio sbagliato di un compagno o per le decisioni dell'arbitro, infine in quell'ultimo rigore parato dallo sloveno Oblak quasi il segno del destino, la fine di una lunghissima gloriosa avventura. No, c'è stato un dopo, un altro rigore, stavolta realizzato, la storia dunque continua e mette in scena la sfida con il futuro, Mbappé.
Di CR7 ricorderemo i gol, ricorderemo le rovesciate e i colpi di testa, ricorderemo anche le lacrime, una enciclopedia di sensazioni ed emozioni che, al contrario, per i nostri eroi azzurri (copyright Spalletti Luciano), goffamente eliminati dalla Svizzera, ha avuto soltanto pagine bianche, stracciate e bagnate, di sputi.
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