Ci sono trionfi che ricordi per una vita intera, che valgono una carriera. D'altronde, che cosa c'è di più magico che un oro olimpico con la divisa del proprio paese? Forse, niente. Se però ti chiami Kirill Kaprizov, provieni dall'impronunciabile Novokuznetsk, i tuoi genitori ti hanno messo tra le mani un bastone da hockey ancora in fasce e, all'età di diciannove anni, hai appena segnato la rete più importante della tua carriera sportiva, il 4-3 decisivo nella finale maschile contro la Germania, e se non puoi gridare e urlare a squarciagola l'inno, il tuo inno, allora in questo mondo qualcosa di strano deve pur esserci. Oppure, semplicemente, alle volte non sempre va così come deve andare.
E cioè che tutti i russi, dopo lo scandalo doping, erano a conoscenza delle regole dettate dal Cio prima di questi Giochi. Russia sotto la sigla OAR (Olympic Athlete from Russia), dunque da neutrali, senza bandiere e inni.
Ieri però, nella giornata conclusiva, la Russia ha conquistato la medaglia più attesa, quella che, forse, ha un valore superiore alle altre: l'oro maschile nell'hockey su ghiaccio. Perché i russi non salivano sul gradino più alto del podio da più di un quarto di secolo, ossia dall'edizione di Albertville 1992. Allora gareggiavano sotto lo status di CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), questa volta lo hanno fatto da OAR.
Ma ieri, dopo il fischio finale, sul podio, contravvenendo alle regole imposte dal Cio, hanno intonato e cantato il
loro inno. Come se niente fosse. Proprio nello stesso giorno in cui il Cio ha confermato il divieto a tutti i russi di sfilare durante la cerimonia di chiusura sotto la propria bandiera. Le Olimpiadi della pace? Mica tanto.
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