Sarà l’estate. O forse il fascino delle sfide tra gli dei del futbol che hanno dipinto gli ultimi brandelli di epica, sebbene applicata allo sport. Sarà, ma i Mondiali rappresentano la trasfigurazione, da sempre, che fa di un calciatore una leggenda.
Il mondo si inchinò alla grandezza di Pelé in Svezia, quando con una doppietta regalò al Brasile quel titolo mondiale (nel 1958) che restituì orgoglio e dignità (sportiva) a un Paese ancora affranto dalla tragedia del Maracanazo. Fu in Messico, nel 1986, che Diego Armando Maradona divenne la Mano di Dios, il barrilete cosmico che stregò l’Inghilterra prima e il pianeta poi.
In casa nostra, ancora ci sono quelle icone che il tempo può solo lucidare e mai ingiallire. L’urlo di Tardelli a Spagna ’82 bissato da quello di Grosso in Germania, lo sguardo spiritato di Totò Schillaci che infuocò l’illusione delle Notti Magiche di Italia ’90. Eppure ci sono stati dei campioni, dei giganti del calcio, che ai mondiali non ci sono mai andati. Almeno, non da calciatori.
La tragedia di Superga
Sfortuna, talenti troppo grandi per i loro contesti di riferimento. A volte, delle vere e proprie tragedie. Per restare in casa nostra, il più grande rammarico umano e sportivo ha un solo nome Valentino Mazzola. Il capitano del Grande Torino mai poté rappresentare l’Italia ai mondiali. Il primo torneo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale fu in Brasile, nel 1950. Un anno prima, il 4 maggio del 1949, il calcio nostrano conobbe il lutto di Superga, che lo rese orfano dei talenti più cristallini e di quell’innocenza spensierata che il pallone seppe donare all’Italia appena uscita dalle macerie del secondo conflitto mondiale.
Tra di loro, il più rappresentativo e forse il più amato era proprio Mazzola. Il loro destino, da campioni incompiuti che ancora avrebbero potuto dare tantissimo, falciati nel pieno delle loro forze, commosse e commuove ancora oggi tutti gli appassionati di sport, non solo di calcio. Quella tragedia ebbe strascichi enormi, persino nelle cose più banali. Infatti, l'anno dopo, per il Brasile la Federazione scelse di viaggiare con la nave e non con gli aerei.
Gulag e pallone
Qualche volta (anzi, troppo spesso) ci si mette anche la politica. Che il calcio sia uno strumento che i dittatori tendono a piegare ai loro desideri, convinti di averne un ritorno d’immagine, è fatto fin troppo noto. Non lo è abbastanza, invece, il destino del russo Eduard Streltsov che invece di andare ai mondiali finì in un gulag.
Streltsov giocava con la Torpedo, la squadra delle industrie automobilistiche di Mosca. Il suo talento era tale che si parlò di lui come del “Pelé bianco”. Però il mondo non poté mai ammirarlo con la maglia rossa dell’Unione Sovietica in un’edizione dei mondiali.
Era forte, fortissimo. Un attaccante moderno per i suoi tempi (siamo alla fine degli anni ’50) che ha l’ardire di rifiutare la corte dei dignitari e dei boiari di Stato che, dalla Torpedo, sognano di portarlo al Cska o alla Dinamo. Poi porta il ciuffo, ama far festa e qualcuno dice che non disdegni la vodka. Non è un buon esempio di cosa e di chi debba essere l’uomo nuovo forgiato dal comunismo. Finirà arrestato a poche settimane della partenza per i mondiali di Svezia ’58. Con l’accusa di aver violentato una 19enne. Blandito da false promesse da parte dei funzionari di Stato e del partito, firmerà una sorta di confessione. Gli avevano promesso che, una volta “messa a posto” la burocrazia, sarebbe potuto ripartire subito. Lo spedirono, invece, in Siberia.
The Best
Un altro ribelle che mai ha avuto la soddisfazione di giocare durante un mondiale fu l’immenso George Best. Talento tanto cristallino quanto irregolare, fu limitato (e non poco) dal livello non troppo eccelso del calcio nella “sua” Irlanda del Nord e dalla sua stessa indomabile follia. Sfiorò la qualificazione ai mondiali che mancavano dal '58, più volte. Ma non riuscì mai a regalare un mondiale alla sua gente.
Ma una soddisfazione pur se la tolse, con indosso la casacca verde. Nel 1976, durante la sfida (poi finita 2-2) contro l’Olanda stellare di Johann Crujff, Best prese palla e affrontò proprio la stella più luminosa degli Oranje. Gli fece un tunnel, poi gettò via la palla. Gli dimostrò che se non era il migliore del mondo lui, Best, era solo per mancanza di tempo. Quando, finalmente, l'Irlanda del Nord riuscì a tornare ai Mondiali, al Mundial dell'82, lui la seguì. Ma nelle vesti di commentatore tv.
Best, scomparso nel 2005, è tra i calciatori più amati di sempre nel mondo britannico, che del calcio ha fatto una religione. A Belfast non l'hanno dimenticato e, nelle scorse settimane, uno scultore ha annunciato di voler avviare una sottoscrizione pubblica per allestire una statua in bronzo in memoria del quinto Beatle.
La Francia sbagliata
Un destino simile è capitato in sorte a un altro bad boy del calcio internazionale. Eric Cantona non ha mai giocato un mondiale. Capitò, ahilui, nel periodo peggiore della Francia. Quella che, dopo il terzo posto a Messico ‘86, non seppe più guadagnarsi una qualificazione mondiale. I galletti fallirono nel ’90 e poi bissarono il flop nel ’94. Cantona, intanto, era diventato uno dei pilastri attorno a cui costruire la nuova Francia. Ma rimase stritolato dalla generazione di campioni, tra tutti il “conterraneo” Zinedine Zidane, che si stava affacciando all’orizzonte.
Non la prese benissimo. E non perdonò mai a chi si "dimenticò" di lui. Tanto da arrivare al punto di dichiarare alla Bbc che avrebbe tifato per l'Inghilterra durante gli Europei del 2004 e i mondiali del 2006.
Nonostante tutto, il talento tanto rissoso quanto innegabile di Cantona è rimasto bene impresso nella mente dei tifosi del Manchester United. E in quelli della Francia.
Il Continente Nero
Non ebbe mai speranze di partecipare a un Mondiale, invece, l’uomo che più di ogni altro ha trasformato il calcio africano, costringendo tutti (addetti ai lavori e tifosi) a prestare seriamente attenzioni ai talenti della pedata del Continente Nero.
Subito dopo l’emozionante cavalcata dei Leoni del Camerun a Italia ’90, e poco prima dell’esplosione di calciatori come Samuel Eto’o e Didier Drogba, ci fu l’attuale presidente della Liberia George Weah. Poteva giocare con la Francia, scelse di combattere la guerra (calcisticamente) disperata della sua patria.
In Italia con il Milan ha vinto quasi tutto, dietro di sé ha lasciato gesti tecnici che ancora adesso catturano migliaia e migliaia di visualizzazioni (ricordate il gol coast to coast al Verona nel '96?). In nazionale non riuscì mai a togliersi la soddisfazione mondiale, ciccando (nel 2002) per un solo punto la qualificazione. In quella formazione giocava anche un’altra vecchia conoscenza del calcio italiano, Zizì Roberts che proprio Weah (alla fine degli anni ’90) segnalò al Milan che, però, lo dirottò in B, prima al Monza e poi al Ravenna.
Il più grande di tutti
Ma forse i mondiali saranno per sempre orfani del più grande calciatore che sia mai esistito. Chi lo ha visto giocare, giura che sia stato più forte anche più di Pelé e, giurano, persino del connazionale Maradona. Alfredo Di Stefano, la saeta rubia, l’uomo che trasformò il Real Madrid nei Galacticos, il capitano della squadra di Gento, Kopa, Puskas che negli anni ’50 dominò ovunque, in patria e in Europa. Non giocò mai una partita nella massima competizione calcistica internazionale.
Né con l’Argentina e nemmeno con la Spagna. E non fu mai per colpa sua. Fino a quando si stufò quando il mondiale del ’62, in Cile, gli fu negato da un infortunio di natura muscolare. E allora lasciò perdere il calcio internazionale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.