"Io e quell'arresto da... Scherzi a parte"

L'odissea giudiziaria, durata 17 anni, dell'ex Juve accusato di essere un narcos. Ma era innocente

"Io e quell'arresto  da... Scherzi a parte"

Lo scorso 31 gennaio, la Corte d'Appello di Torino ha assolto l'ex calciatore Michele Padovano dall'accusa di aver finanziato un traffico di stupefacenti nel 2006, chiudendo una parentesi lunga 17 anni, durante i quali si è battuto con determinazione al fine di dimostrare la sua innocenza. Ha lottato fino alla fine, fedele al motto della squadra nella quale aveva raggiunto, da calciatore, il tetto del mondo. Nel cuore dei tifosi della Juventus, Padovano, conserva infatti un posto speciale. In due sole stagioni in bianconero, contribuì in maniera determinante ai successi rivelatisi poi storici: uno scudetto, una supercoppa europea battendo il Psg e siglando una doppietta nell'andata a Parigi, ma soprattutto una Coppa intercontinentale e una Coppa dei Campioni.

E proprio nella Coppa dalle grandi orecchie Padovano firmò serate storiche: suo il gol all'esordio a Dortmund, come pure uno dei quattro rigori di Roma nel trionfo finale. Soprattutto si prese la scena la sera del 20 marzo del 1996 nella gara di ritorno dei quarti di finale contro il Real Madrid, con il gol del 2-0 che sposta definitivamente la qualificazione dalla parte della Juventus. Non poteva immaginare Padovano, che esattamente 10 anni dopo quella meravigliosa serata, si sarebbe aperta per lui una partita delicatissima, buia; o come la definisce lui stesso, atroce.

Cosa ricorda di quel 10 maggio del 2006, il giorno in cui venne arrestato?

«Ricordo le modalità davvero assurde con cui venni condotto in questura, come se fossi l'Escobar italiano. E dopo le impronte digitali venni immediatamente trasferito nel carcere di Cuneo. In isolamento. Ricordo bene che quando venni prelevato da casa e condotto in questura, pensai che fosse tutto uno scherzo. O almeno lo sperai fortemente».

In che senso?

«Erano gli anni in cui Scherzi a parte aveva preso di mira i calciatori. Allora pensai ad uno scherzo architettato ben bene, ma una volta entrato in questura e prese le impronte, capii che era tutto vero. Giuro che sperai tanto che si trattasse di uno scherzo».

Cosa le accadde a livello fisico?

«È stata durissima. A Cuneo mi misero in isolamento per 10 giorni. Senza doccia, in condizioni terribili. In seguito, acquisita l'ordinanza, iniziai a leggerla attentamente. Anzi la studiai a memoria e più la studiavo, più mi rendevo conto dell'errore sulla mia figura. Dopo quei 10 giorni atroci di Cuneo, venni trasferito a Bergamo per 3 mesi. Fisicamente fu devastante».

E mentalmente?

«La mia fortuna sono state la consapevolezza di essere innocente e la forza del mio carattere. Sono un combattente, non ho mai mollato in campo e non potevo certo mollare in quel momento. Come detto, studiai attentamente l'ordinanza del mio arresto, e decisi che dovevo combattere fino alla fine per dimostrare la mia innocenza e non ho chiesto il rito abbreviato, che mi avrebbe garantito sconti di pena, io volevo l'assoluzione piena perché ero innocente».

Dopo 200 giorni circa di carcere, tornò a casa.

«Ogni giorno i carabinieri venivano 2-3 volte. Chissà, pensavano volessi scappare! E dopo 9 mesi di domiciliari, altri 5 mesi con l'obbligo di firma».

Quindi tutto l'iter processuale.

«Nel 2011 la sentenza di primo grado fu 8 anni e 8 mesi, in appello 6 anni e 8 mesi. Ma credo che la mossa fondamentale sia stata cambiare i miei avvocati. E con Michele Galasso e Giacomo Francini è iniziato un viaggio tutto nuovo che è terminato poche settimane fa con l'assoluzione».

Cosa ha provato nel leggere la sentenza di assoluzione?

«Sono un combattente, ma faccio fatica ad esternare determinate emozioni, soprattutto quando sono così forti. Ho pianto, ma ho provato anche una gioia immensa. Parliamo di diciassette anni di vita, durante i quali sono accadute tantissime cose. Mio padre non c'è più...».

In tutti questi anni come ha gestito la sua figura di marito e di padre?

«Devo tutto a mia moglie Adriana. È lei che ha reso possibile che io continuassi ad essere marito e padre di Denis. La famiglia è tutto nella vita».

E dal mondo del pallone chi ricorda al suo fianco?

«Non porto rancore ma cito solo due persone che mi sono state realmente vicine: Gianluca Presicci e purtroppo un amico e collega che non c'è più...».

Gianluca Vialli.

«Esatto. Luca telefonava sempre a mia moglie quando ero in carcere. Eravamo amici, molto amici. La mia scelta di andare a Londra al Crystal Palace fu determinata dal fatto che lui era lì. Con lui se n'è andato un pezzo di me».

In tutti questi anni ha provato a lavorare nel mondo del calcio?

«Possiedo l'attestato da Direttore Sportivo e ho lavorato ad esempio con Torino ed Alessandria e come dirigente credo di aver dimostrato di poterci stare in quel mondo. Poi questa vicenda ha spazzato via tutto. Nessuno ha più scommesso su di me».

Quanto calcio ha perso?

«Tanto. In campo e fuori. E quando abbiamo vinto il mondiale di calcio nel 2006 ero in carcere, in una cella 3 metri per 4».

Che calcio ha ritrovato in Italia?

«Si guarda troppo poco ai giovani. In un calcio che è diventato un business con capitali eccessivi ai quali è difficile stare dietro, se non si lavora con una programmazione certosina come hanno dimostrato Leicester e Atalanta, è difficile rimanere a galla. Si può lavorare molto bene lavorando sui settori giovanili, portando i ragazzi che meritano in prima squadra e non mandandoli in prestito dove spesso rischi di perderli».

Che Juventus ha ritrovato?

«Conosco la mentalità della società bianconera e vi dico che nonostante le mazzate subite, tornerà più forte di prima».

Cosa ricorda di quel 20 Marzo 1996, contro il Real Madrid?

«Una serata

storica, indelebile nella mia memoria. Ricordo la gioia dei tifosi. Ecco, i tifosi bianconeri sono sempre stati dalla mia parte, mi hanno fatto sentire sempre a mio agio e non ho mai visto in loro nessun tipo di pregiudizio».

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