Jokic batte anche il razzismo al contrario

Il serbo incanta gli Usa, ma viene snobbato dai media tra Curry & C.

Jokic batte anche il razzismo al contrario
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Only in America, succede solo in America. Un'espressione che generalmente indica il bizzarro, l'inusuale, il non conforme. Only in America può accadere che un giocatore di basket sia votato per due volte Mvp del campionato Nba, quindi miglior giocatore, eppure dopo aver dominato la finale e vinto il primo titolo per sé e per la propria squadra, e pure il voto di Mvp, resti una mezza sorpresa per il mondo. Un mondo distratto, forse incredulo di fronte a Nikola Jokic, 28 anni, centro e cervello dei Denver Nuggets campioni Nba per la prima volta dopo il 4-1, netto, ai Miami Heat. Jokic, serbo di Sombor che come fa intuire il nome non è lontana dal confine ungherese, ha avuto 30,2 punti, 14 rimbalzi e 7,2 assist di media, dominando quattro delle cinque partite con il suo gioco versatile, costruttivo, altruistico, e segnando comunque 41 punti nell'unica sconfitta dei Nuggets, gara2, partita nella quale Miami ha preso la decisione di consentirgli di segnare evitando però che distribuisse gioco, come testimoniano i soli quattro assist di quella serata. Con i suoi 2,11 di statura, fisico massiccio, mano morbida, visione di gioco e quel menefreghismo serbo, quel senso di malcelata superiorità sul resto del mondo che gli permette di andare in America senza smaniarla, crescere poco alla volta senza fretta, incassare un mostruoso prolungamento del contratto (cinque anni, 264 milioni di dollari l'estate scorsa) e fare come se niente fosse, senza sentirsi sminuito se i contratti pubblicitari gli fruttano due milioni l'anno rispetto ai 90 di LeBron James e ai sei di Joel Embiid, votato Mvp della regular season al posto suo nella stagione appena conclusa.

Appassionato di ippica, allevatore di cavalli cui non vede l'ora di tornare ad ogni momento libero, Jokic ha forse risentito della forma di razzismo mediatico a rovescio che a volte governa il basket Nba e preferisce sottolineare le imprese di eroi come LeBron James, Stephon Curry o Kevin Durant. Le polemiche di tifosi di Denver contro l'ex giocatore, ora commentatore tv, Mark Jackson, colpevole di non aver nemmeno indicato Jokic tra i cinque migliori della regular season, lasciano il tempo che trovano perché faziose, ma la succitata differenza di valorizzazione pubblicitaria dice che forse ai padrini del marketing, che determina la pubblicizzazione degli atleti molto più del loro valore sportivo, evidentemente una figura così interessa pochino. Era del resto accaduto con un altro grande europeo, Dirk Nowitzki, il tiratore tedesco per 20 stagioni nei Dallas Mavericks, campione Nba e Mvp nel 2011, curiosamente sconfiggendo proprio Miami nella finale.

Ma Dirk era arrivato con grandi aspettative, anche se all'epoca i giocatori europei erano ancora una mezza curiosità, mentre Jokic è stato scelto al numero 41 del draft, nel 2014, e non per nulla nessuno scelto così in basso era mai stato Mvp di una finale, prima d'ora.

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