Luisito, l'architetto della Grande Inter che danzava leggero con la giacca addosso. E sposò l'Italia

Gli eroi del football muoiono all'alba, nel giorno giusto della loro vita, domenica

Luisito, l'architetto della Grande Inter che danzava leggero con la giacca addosso. E sposò l'Italia

Gli eroi del football muoiono all'alba, nel giorno giusto della loro vita, domenica. Luis Suarez Miramontes ha concluso la sua esistenza dopo ottantotto anni bellissimi, resta grandiosa la sua storia di campione assoluto, trasparente, unico. Il cervello di seta e la classe di acqua pura lo hanno accompagnato dalla nascita, avenida Hercules, numero 20 di Monte Alto, La Coruña. C'è un piccola targa in pietra che ricorda «Nesta casa naceu o 2 de maio de 1935 Luis Suårez o arquitecto do futbol». Fosse stato per Antonio Rumbo Martinez, Luis si sarebbe dedicato alla pesca nel mare galiziano. Era, il suddetto Martinez, il presidente del Deportivo La Coruña, l'asilo calcistico di Luis che andava in tram al campo e nemmeno immaginava il magico futuro. Nell'intervallo di una partita giocata a Santander, il gentiluomo padrone irruppe nello stanzino dello spogliatoio e scaricò la sua ignoranza rabbiosa sul diciottenne dai capelli brillantinati. Per il presidente era tutta di Suarez la colpa dello 0 a 0 parziale. Luis, seduto sulla panca, prese a tremare ma a fermare le mani e la voce dello sguaiato Rumbo fu Otero, il portiere del Depor, vicino di casa di Suarez, chiedendo al capo di smetterla. Arrivò la sfida contro il Barcellona che ne fece 6 al gruppetto gallego, il presidente villano ne approfittò per vendere ai blaugrana Dagoberto Moll, centrocampista uruguagio ventiseienne e liberarsi anche di Luis senza una sola peseta in cambio. In verità prima di quella partita il Real Madrid spedì un osservatore al Riazor ma il ragazzo giocò una partita orrenda contro il Valladolid (così lui mi ricordava), Juan Antonio Ipina, l'inviato delle merengues, mise una croce sul nome, bocciato. Eppure Alfredo Di Stefano, quando le due squadre si affrontavano, gli ripeteva: «Gallego, vente al Madrid», Santiago Bernabeu, il presidente, non si convinse.

Cominciò, allora, l'avventura al Camp Nou, il tram fu sostituito da una Dauphine Renault, la squadra aveva fantastici attori, Kubala su tutti, il maestro ungherese gli insegnò la paradinha, quella pausa imprevista prima di calciare un rigore o una punizione, l'attimo sfuggente che sballava i portieri. La squadra era allenata da un italiano, Sandro Puppo anche scrittore di libri sulla storia del calcio, poi toccò al magiaro Franz Platko che imponeva la boxe come allenamento, quindi lo spagnolo Domenec Balmanya, ognuno di questi chiedeva al giovane galiziano di giocare in ruoli diversi, davanti alla difesa, mediano, trequartista, il Cam Nou fischiava il ragazzo venuto da La Coruña. Fu Helenio Herrera, il mago argentino, ad intuire le qualità dell'architetto galiziano al punto che, tre anni dopo lo volle all'Inter. Con il Barcellona furono vittorie di Liga ed europee, arrivò il Pallone d'Oro, primo e unico per un calciatore spagnolo, i francesi di France Football così scrissero nella lettera di celebrazione: «Luis Suarez ha l'autorità di un duca, la precisione di un geometra, la bellezza di un Apollo. Velocità, cambio di ritmo, abilità, potenza e grande precisione nel tiro. Calciatore di razza, può apparire individualista ma sa mettere il talento al servizio del collettivo».

Luis consegnò il palloncino d'oro (tale era nelle dimensioni rispetto al trofeo attuale) al massaggiatore Angel Mur che lo portò nello spogliatoio, prima di essere trasferito nel museo del Barça, nessuna festa, nemmeno una cena con i compagni di squadra. Per completare l'argenteria, altri palloncini, due d'argento, uno di bronzo, tutto in un quinquennio. È stato questo, Luis Suarez, anche nella vita quotidiana, assolutamente normale, lontano dalle luci abbaglianti che già allora ubriacavano gli artisti. Italo Allodi lo portò dunque all'Inter, Angelo Moratti contribuì, con duecento ottanta milioni di lire, a rimettere in equilibrio i conti dei catalani, Luis sbarcò a Milano e, ad accoglierlo, trovò anche una biondissima milanese, Valentina. Sarebbe diventata sua moglie per sempre, regalandogli un figlio, Luis, biologo a Madrid.

L'epopea interista ha colori vivissimi, italiani, europei, mondiali, Luis era l'interprete dell'intelligenza tecnica e dell'astuzia tattica, giocava un football essenziale, calciava con una perfezione accademica, sembrava muoversi, anche in campo, con la giacca appoggiata sopra le spalle tanto era leggera la sua azione, il movimento beffardo sui calci di rigore lo assomigliava al torero con l'estoque finale. Giocò in nazionale in un quintetto formato, con lui, da Miguel, Kubala, Di Stefano e Gento, una squadra fantastica che conquistò l'europeo e non partecipò a quello sovietico per scelta di Franco. Da Milano si trasferì al mare di Genova, con la maglietta della Doria. Da allenatore, con la Under 21 spagnola un titolo europeo, con la nazionale maggiore, al mondiale d'Italia, una delusione criticata aspramente dalla stampa, poi altre tappe e uno strano, acido rapporto con Barcellona e il tifo catalano, abituato al caviale e irriconoscente con lui se non per certe occasioni prevedibili, senza euforie particolari. Per questo Luis aveva scelto l'Italia come buen retiro de vida, con la sola nostalgia dei mariscos gallegos che una o due volte al mese arrivavano con un furgone frigo da Burela, di fronte al mar cantabrico. La pandemia lo aveva imprigionato nella sua dimora, vicino a San Siro, la perdita di Valentina aveva aggiunto solitudine, la voce portava malinconie, quando squillava il telefono temeva, come purtroppo accadeva, che qualche vecchio amico e compagno lo avesse abbandonato, così Mario Corso, Olivella, Fusté, Amancio, Di Stefano, Gento. Non gli piaceva più questo ultimo football di passaggi arretrati e di finta aggressività, mi raccontò, a proposito, un episodio della sua gioventù spagnola, quando un avversario entrò da dietro sulle sue gambe e gli urlò: «Ora ti ho ferito, alla prossima ti ammazzo» e faceva sul serio, perché questo era il vero football non quello televisivo contemporaneo. Non aveva gradito l'arrivo dei cinesi nel club che fu dei Moratti, non poteva accettare quella bestemmia del nome del fondatore del centro sportivo di Appiano Gentile, Angelo Moratti, ridotto ai minimi caratteri grafici per esaltare il nuovo padrone, non frequentava più San Siro, amava dialogare con Quique Ortego, giornalista scrittore, amico comune di memorie e confidenze.

Deambulava a fatica, aiutandosi con un dispositivo che un po' lo umiliava, conservava tuttavia la mente lucidissima e così il senso aperto della vita. Aveva deciso di essere sepolto al cimitero di Milano, accanto a Valentina. Lontano dalla folla catalana che lo aveva dimenticato. Il telefono non squilla più. Gracias de todo, Luisito.

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