Roma - Gentile, educato, disponibile: sereno. In bicicletta Chris Froome arde di fuoco vivo, pare indemoniato. Giù di sella è un vero gentleman, un testimonial del ciclismo. Calmo e riflessivo. Sempre pronto ad accoglierti con un sorriso: come dopo l'impresa sullo Zoncolan. Tornato in albergo a Gemona del Friuli, Froome trova Victoria, una ragazza friulana di Buja, malata da tempo di una malattia rara del sangue, che con un sorriso disarmante, e la voce tremula, chiede al fuoriclasse del team Sky una maglietta con l'autografo. Lui la ascolta e le dice: «Aspettami qui, vado su in camera a fare una doccia e torno: massimo venti minuti, e sono qui...». Dopo un quarto d'ora Chris è giù nella hall dell'albergo, con una sacca del Team Sky, piena zeppa di ogni ben di dio: maglia, calzoncini, mantellina, cappellini e borracce. «Queste sono per te...». Lei, Victoria, lo abbraccia in lacrime, si fa fare l'autografo e la mamma le scatta anche una foto con il campione del cuore. Tutti felici.
Froome, però, è anche una figura ingombrante. Per certi versi oscura. Quello che in questo Giro, alcuni corridori, non avrebbero neanche voluto vedere. Lo stesso Tom Dumoulin, il grande sconfitto, al via da Gerusalemme era stato più che chiaro: «Se fosse successo a me, quello che è successo a lui, la mia squadra non mi avrebbe permesso di essere al via». Parole taglienti come lame, che incidono la pelle e segnano il cuore: non quello del britannico, che sembra impermeabile anche alle parole caustiche del neozelandese Sam Bennett, al termine della tappa di Bardonecchia: «L'impresa sul colle delle Finestre? Alla Landis...». Il riferimento all'americano è chiaro, e richiama l'incredibile vittoria di Floyd Landis al Tour 2006, quando l'americano andò in fuga per quasi 130 km in solitaria nella 17° tappa giungendo al traguardo con 6 minuti di vantaggio. Quel Tour lo vincerà, ma poi sarà squalificato per una positività al testosterone. E a poco serve il tweet della Lotto Jumbo, la squadra di Bennett: «È solo un'espressione di ammirazione...». Sì, certo, come no. Chris Froome vince il Giro (ieri l'ultima tappa a Sam Bennett, davanti a Viviani, dopo una plateale quanto stucchevole protesta dei corridori, che hanno chiesto la neutralizzazione della tappa, per le buche e la pericolosità del circuito, ndr), ma a casa non si porta solo la maglia rosa, ma anche i dubbi e il peso di quella positività ancora non chiarita, che lo fa essere un vincitore sub-judice.
La storia è ormai nota: 7 settembre 2017, 18a tappa della Vuelta, nelle urine di Chris Froome viene riscontrata una quantità doppia di salbutamolo (antiasmatico, principio attivo del Ventolin) rispetto al consentito. Tecnicamente non è una positività, ma un «risultato analitico avverso», che potrebbe trasformarsi in positività qualora Froome e i suoi legali non dovessero riuscire a dimostrare la buonafede. In ballo c'è la Vuelta (la vincerebbe Nibali, secondo classificato, ndr) e una squalifica fino a due anni. Il giudice unico del Tribunale antidoping Uci chiamato a esprimersi è il tedesco Ulrich Haas. Tempi della decisione? Ah, saperlo...
Ma nel caso ipotetico e remoto che Froome fosse davvero squalificato, che fine farebbe il suo Giro d'Italia? La logica e i regolamenti inducono a pensare che la squalifica partirebbe dal momento in cui è comminata la pena.
Il direttore del Giro Mauro Vegni è fermamente convinto di questo, peccato che qualche settimana fa il presidente dell'Uci, il numero uno del ciclismo mondiale, l'abbia seccamente smentito. Insomma, tutto bene. Tutto chiaro. In linea con tutta questa vicenda.
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