"Quando diedi del 'cog...' a Lo Bello"

Nel libro "Mi chiamavano Rombo di Tuono" anche la lite col "tiranno di Siracusa"

"Quando diedi del 'cog...' a Lo Bello"

«Vado per gli ottanta. L'ultima partita l'ho giocata che non ne avevo trentadue, e sarà anche vero che dura un attimo la gloria ma poi portarsela dentro per tutto questo tempo senza più la possibilità di rinverdirla è durissima. Anche un po' crudele». Parola di Gigi Riva. Nero su bianco, come gli esagoni bicolori dei palloni anni '70, su una autobiografia che ha il ruggito di un «Rombo di Tuono». Gigi Riva ha la faccia dell'eroe che mastica il passato e lo sputa in faccia a un presente che non gli piace. Perché, il nostro, è un tempo che rinnega molti dei valori che hanno plasmato il mito di Riva: etica del lavoro, fedeltà alla maglia e rifiuto di ogni compromesso. Per raccontare il mondo di questo campione, oggi 77enne, ma immortale almeno quanto i valori di cui è portatore, ci voleva una «penna» speciale, quella di Gigi Garanzini, sensibile cantore di storie di sport. Ne è venuto fuori un libro al tempo stesso romantico e severo: «Mi chiamavano Rombo di Tuono» (Rizzoli), pagine avvincenti e al tempo stesso «educative»; con sport e morale che si rincorrono attorno a quella sfera di cuoio che Riva ha ficcato in rete innumerevoli volte, battendo ogni record. Nessuno più, e meglio, di lui. In campo, ma anche fuori dal «rettangolo di gioco». Un modello di vita. Il volto più credibile e autorevole anche nel ruolo di dirigente degli Azzurri. Poi la decisione di farsi da parte. Forse dopo aver preso atto che il calcio non era più il «suo» calcio. E forse anche per colpa di una maledetta depressione («Un problema di testa con cui ho imparato a convivere, ma mai del tutto. Perché quando si rifà vivo rimane un brutto avversario da affrontare»).

Per questo sfogliare le sue memorie è come entrare in una di quelle vecchie chiese che profumano ancora di incenso e dove le candele non sono state sostituite dai lumini elettrici. L'autobiografia di Riva sarà in libreria dal primo novembre. Il senso racchiuso in tre sole lettere, «gol»: «Per me era tutto. Se era bello o magari bellissimo tanto meglio. Ma andava bene anche da un metro, casuale, fortunoso. Mi dava una scarica nervosa incontrollabile, e poi per quella settimana ero tranquillo». Un album di ricordi ricco di aneddoti, foto e curiosità tra cui spicca la cronaca di uno storico scontro (uno dei pochissimi avuti in carriera da Riva, modello di correttezza): la lite con l'arbitro Concetto Lo Bello in occasione di un incancellabile pareggio Juve-Cagliari del 15 marzo 1970, per i sardi l'anno del fantastico scudetto. Da una parte il fuoriclasse lombardo (nato a Leggiuno, in provincia di Varese) ma divenuto simbolo vincente dell'«emancipazione» della Sardegna rispetto al «Continente»; dall'altra il principe delle «giacchette nere». Insomma, uno scontro titanico. E qui l'amarcord di Riva si trasforma in leggenda letteraria, lì dove scrive: «Non avevamo però fatto i conti con Lo Bello. Cominciò con un rigore per la Juve, del tutto inesistente». Un penalty battuto da Haller e parato da Albertosi, ma che Lo Bello fece ripetere perché il portiere si era mosso prima. Il rigore bis fu battuto da Anastasi che segnò. In campo si scatenò il putiferio.

Riva prese a parolacce l'arbitro: «Gli urlai che noi avevamo fatto sacrifici per un anno intero, e che non era giusto che un coglione come lui li buttasse all'aria».

Il Cagliari pareggiò negli ultimi minuti, con un penalty, dubbio, concesso ai sardi dal signor Lo Bello. Che al triplice fischio guardò Riva, sfidandolo con un sorriso.

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